“Un anno di guerra, ancora prigionieri delle armi”

L'editoriale di don Michele Mosa sull'ultimo numero de "il Ticino"

È già trascorso un anno: e – dirà qualcuno – sembra ieri. Un anno di guerra. Senza se e senza ma. Senza soluzione di continuità. Senza tregua: neppure a Natale si è smesso di uccidere: si celebrava la Vita seminando la morte. Guerra. Inevitabile perché ogni popolo ha diritto di difendersi se aggredito – e ci mancherebbe altro. Quello che mi fa specie è che, a dispetto del nostro progresso scientifico e delle nostre conquiste tecnologiche, siamo ancora prigionieri delle armi: per risolvere le nostre controversie e le nostre divergenze di opinione abbiamo ancora bisogno di fucili, carri armati, missili e bombe. Dalle caverne ai grattacieli ne ha fatta di strada l’ “homo sapiens”. Cioè – come leggiamo nel vocabolario Treccani – quel «mammifero primate che si caratterizza per la posizione eretta, le mani con pollice opponibile, un cervello molto sviluppato, un linguaggio articolato e simbolico e la capacità di pensare e di trasmettere informazioni». Che però – mi viene da dire – preferisce ancora uccidere che discutere. Usare le armi che sedersi al tavolo. O forse aveva ragione Bobbio quando scriveva, nel 1975, che «nel caso dei due opposti pace-guerra, è sempre il primo che viene definito per mezzo del secondo e non viceversa. In altre parole: mentre “guerra” viene definita positivamente con l’elencazione di connotati caratterizzanti, “pace” viene definita negativamente come assenza di guerra, più brevemente come non guerra». Basta leggere il più celebre frammento di Eraclito, datato a circa 2.500 anni fa, per averne la conferma: «Pólemos (la guerra) è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi».

 

“L’Ucraina mi sembra diventata un palcoscenico”

 

Che sia davvero così? Che sia questo il motivo per cui al centro delle nostre riflessioni – al bar come nei parlamenti, fra amici o fra capi di stato – c’è la guerra e solo marginalmente e di conseguenza la pace? Capisco allora perché Hobbes nel sec. XVII scriveva che la pace è solo il tempo intercorso fra una guerra e l’altra (come l’intervallo a scuola: una pausa a metà mattina). E capisco anche perché, a proposito della guerra in atto fra Russia e Ucraina, si parli di pace solo – ripeto, solo – a partire dalla vittoria dell’uno o dell’altro contendente: la pace “dipende” dalla guerra. Capisco con la ragione ma non condivido: e questo né con la ragione né con il cuore. Capisco: no, non è vero; in realtà sono disorientato. E in questi giorni lo sono ancora di più: l’Ucraina mi sembra diventato un palcoscenico, la guerra è il dramma (tragedia direi meglio) rappresentato e i “grandi” della Terra fanno a gara per recitare la parte del primo attore. Tutto sa di guerra e la pace è la grande assente. D’altra parte, quale voce potrebbe sovrastare quella delle armi? E di armi sempre più potenti?

 

Il grido profetico di Papa Francesco

 

Nel cuore riecheggia il grido profetico (inascoltato?) di Papa Francesco: «La vera risposta (…), non sono altre armi, altre sanzioni. Io mi sono vergognato quando ho letto che – non so… – un gruppo di Stati si è impegnato a spendere il due per cento, credo, (…) del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico- militare» (discorso al Centro italiano femminile, 24 marzo 2022). Certo c’è la questione di una governance sovranazionale, globale potremmo definirla, da affrontare: a cosa serve oggi l’Onu? Qual è il ruolo dell’Europa? (se è qualcosa più di un continente geografico). E ancora: cosa posso fare io come uomo/donna e come cristiano/a? Di certo non posso restare, seduto sul divano, a braccia conserte, davanti alla tv; devo scendere in campo. Ma come senza rischiare di scivolare in uno sterile pacifismo o in un ideologico irenismo? Credo che proprio la Quaresima ci aiuti. Posso (possiamo) fare tre cose: pregare, molto e intensamente, manifestare il proprio dissenso alla guerra ed essere solidale. La guerra, meglio direi la pace è una questione di cultura, quindi di Chiesa: se il modo è diventato globale, la Chiesa è – per natura propria – cattolica, è (dovrebbe almeno essere) al di là di confini e nazionalità. E, se non è possibile eliminare – in senso letterale quanto metaforico – il nemico, possiamo e dobbiamo imparare a vederlo come il tu che mi fa essere io: senza di lui, muoio anch’io. Amare il nemico è troppo? Stando al Vangelo è l’unica via per scoprirsi figli del Padre. Per essere uomini e donne prima e più che cristiani. L’alternativa alla guerra non è la pace, è l’umanità. Quell’umanità che si dice “sapiens”, anzi “sapiens sapiens” ma che si è dimenticata di Hammurabi, Mosè, Buddha, Gesù. Che rincorre l’intelligenza artificiale e si è dimenticata della vera sapienza, quella del cuore: “sapientia cordis” come diceva Giovanni XXIII.

 

Don Michele Mosa