La Sacra Scrittura di domenica 6 novembre

Il commento di don Michele Mosa. «La fede infatti non è di tutti»

La religione però – mi verrebbe da dire – sì, è di tutti. Scriveva Plutarco nel sec. II d. C.: «Se tu percorrerai la terra, potrai trovare città senza mura, senza lettere, senza re, senza case, senza ricchezze, senza monete, senza teatri e palestre; ma nessuno vide mai né mai vedrà una città senza templi e senza dèi». Ognuno ha la propria: e se non abita nei cieli o negli inferi, di certo abita la sua mente e il suo cuore. E non mi riferisco ai cosiddetti idoli della modernità: denaro, potere, successo. (…) Penso proprio a un dio – chiedo scuso se lo scrivo con d minuscola –, un dio che può addirittura chiamarsi Gesù Cristo o Allah o… Perché anche Cristo può diventare un dio, può assumere le sembianze di un idolo. E la fede diventa religione se non addirittura superstizione. Lo dico, facendo mia una riflessione di Cicerone che suonerà forse eretica alle orecchie di tanti: «Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevano sacrifici perché i loro figli sopravvivessero a loro stessi, furono chiamati superstiziosi. […] invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi». Superstiziosi sono cioè coloro che pregano gli dei (dio) per chiedere grazie (avere garantita la vita dei figli), religiosi sono invece coloro che osservano scrupolosamente tutte le prescrizioni del culto (forse oggi diremmo seguono alla lettera e con scrupolo le rubriche): l’oggettivo schiaccia il soggettivo. Intendiamoci: non sto dicendo che si può stravolgere tutto – non direi mai la messa a mollo nel mare, non cambierei le preghiere o le parole della consacrazione –, sto dicendo però che la fede ha mille sfumature pur restando sempre quella del Credo e ha bisogno di esprimersi – lo ripeto, senza stravolgere la liturgia – in modo personale: posso celebrare allo stesso modo in una casa di riposo e per dei bambini? La fede non è di tutti. Ancora una piccola riflessione. Come accogliere nella Chiesa chi dunque vive nei canoni della religione ma non ha il coraggio, non vuole o non sente l’esigenza di spostarsi sul piano del coinvolgimento personale e dell’approfondimento? E se la fede avesse bisogno di domande quotidiane? Se la fede crescesse nel solco dell’inquietudine? Se fosse inevitabile confessare con S. Agostino che «Tardi ti ho amato»? Mi resta ancora una domanda: perché nella Messa chiediamo al Padre di confermare la Chiesa nell’amore e non nella fede?

 

Don Michele Mosa