25 aprile a Pavia: l’intervento della professoressa Elisa Signori

Il testo integrale della sua orazione ufficiale durante la manifestazione svoltasi in Piazza Italia

Pubblichiamo molto volentieri sul sito de “il Ticino” il testo integrale dell’orazione ufficiale della professoressa Elisa Signori in occasione della manifestazione del 25 aprile svoltasi a Pavia in Piazza Italia. La professoressa Signori è docente di Storia Contemporanea all’Università di Pavia e direttrice dell’Istituto Pavese per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Elisa Signori è la madre di Andy Rocchelli, il fotoreporter pavese ucciso nel Donbass nel 2014. Ecco, di seguito, l’intervento della professoressa Signori (nella foto accanto al sindaco Mario Fabrizio Fracassi durante la cerimonia del 25 aprile):

 

 

Care concittadine e cari concittadini, illustri autorità civili, religiose, militari, buon 25 aprile a tutti. Ringrazio chi mi ha affidato il compito di parlare oggi nel 77° anniversario della Liberazione e sento tutta la responsabilità di dare significato a un momento di riflessione, oggi più che mai difficile, dopo due anni di pandemia che hanno portato nelle nostre vite lutti, solitudine, sofferenza, nuovi e acuti bisogni e soprattutto dopo che la guerra è tornata a insanguinare l’Europa. Oggi più che mai, suonerebbe stonato rifugiarsi nella ritualità celebrativa e eludere il confronto con la tragedia della guerra in Ucraina che sfida la nostra coscienza e suscita echi dal nostro passato.
E dunque cerchiamo con i nostri pensieri di costruire un ponte tra il fragore delle armi di oggi e quell’aprile del 1945 che mise a tacere le armi. segnando per il nostro paese un nuovo inizio nella democrazia e il ritorno in pace in seno all’Europa libera.

Parliamo allora di guerra e di pace.
Non è un paradosso affermare che la Resistenza italiana fu in gran parte espressione di un disperato desiderio di pace e di una condanna senza appello della guerra. Questa attitudine la ritroviamo ovunque nel panorama frammentato e mutevole della Resistenza.
Tra i suoi partigiani in armi, moltissimi erano i giovani che combattendo le guerre del fascismo avevano maturato la convinzione dell’insensatezza di quelle aggressioni. In Albania, in Francia, in Grecia e nei Balcani avevano sperimentato l’insipienza dei comandi e del governo che li spediva, male guidati e peggio equipaggiati, a occupare terre altrui in nome di un velleitario disegno di conquista. La sciagurata offensiva in Russia, cui Mussolini aveva reclamato l’onore di partecipare, li aveva portati ad affiancare in una spietata e fallimentare invasione l’alleato tedesco, per il quale molti concepirono proprio allora una profonda avversione. «Maledicevamo il fascismo, e come lo maledicevamo», ha raccontato l’alpino Nuto Revelli: «nell’estate del 1942, 200 lunghe tradotte avevano portato il corpo d’armata alpino sul fronte russo. Nella primavera del ‘43 ne bastarono 17 per riportare in Italia i superstiti, i fortunati». Di 230.000 soldati che costituivano l’Armir, 100.000 tra morti e dispersi furono abbandonati durante la ritirata.
Paradigma di questa esperienza è Teresio Olivelli, brillante laureato dell’Ateneo di Pavia, cattolico credente e fascista tutto d’un pezzo, partecipò entusiasta come ufficiale dell’artiglieria alpina alla guerra sul fronte orientale, poi visse l’annientamento della sua batteria e si prodigò verso i compagni nella tragica ritirata dalla Russia. Furono per lui come per altri coetanei momenti di una revisione critica e autocritica profonda: alla cruda luce della realtà i miti del fascismo si sgretolavano e fu un risveglio amaro. Tornato a piedi in Italia, Olivelli diventò un “ribelle”, la sua scelta di antagonismo frontale al nazifascismo era compiuta, l’avrebbe seguita con fermezza combattendo e organizzando la Resistenza, le Fiamme Verdi, tra Brescia, Cremona e Milano fino all’arresto, alla deportazione e all’assassinio a Hersbruck nel gennaio del ’45.

Quanti tra i soldati russi che sono spediti oggi a combattere in Ucraina sono consapevoli della guerra ingiusta che stanno combattendo e, se non lo sono, quando cadrà loro la benda sugli occhi e si accorgeranno di aver dato e rischiato la morte per una causa insensata? In Russia si è bandita la parola guerra per indicare l’aggressione all’Ucraina e si caccia in carcere chi esprime il suo dissenso, si chiudono giornali, si fanno tacere emittenti. Ma fino a quando il bavaglio può funzionare? Ancora: il rifiuto della guerra fu il comune denominatore della renitenza di tanti giovani, nati tra il 1921 e il 1925, chiamati alla leva obbligatoria dal governo repubblicano fascista di Salò, che ambiva esibire un suo esercito all’alleato-padrone tedesco. Per sottrarsi alla leva, molti renitenti presero la via delle colline e delle montagne, si unirono ai militari dell’esercito lasciato allo sbando dalla maldestra manovra armistiziale dell’8 settembre 1943. Nacquero così le prime bande, primi nuclei di un esercito irregolare destinato a successive metamorfosi, a crescere per poi scomparire e rispuntare più forte, riuscendo ad impegnare tra l’inverno 1943 e la primavera 1945 circa la metà delle 27 divisioni della Wermacht operanti in Italia e delle 4 divisioni schierate dalla Repubblica Sociale. Da poche migliaia gli effettivi del CVL diventarono 150.000 tra uomini e donne. Infine a desiderare la pace era la popolazione civile, stremata da una costosa politica di guerra, che era iniziata nel ’35 e ed era poi confluita senza stacchi nella guerra mondiale. Dapprima l’attacco all’Etiopia, una efferata guerra coloniale fuori tempo massimo, combattuta anche con armi non convenzionali come i gas, banditi da convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia stessa. Vantata come una guerra di civiltà contro la barbarie, fu una guerra di sterminio e una delle pagine più vergognose del nostro passato. Poi seguì la partecipazione alla guerra di Spagna, in aiuto a quella sedizione militare franchista che avrebbe fondato una delle più longeve e spietate dittature del ‘900.

Nel 1943 non c’era famiglia italiana che non piangesse un caduto o un prigioniero, la sconfitta delle armi italiane era ormai evidente sui diversi fronti, i bombardamenti distruggevano l’illusione della sicurezza di città e borghi, paura e fame incrinavano la credibilità del regime. Questo groviglio inestricabile di sofferenza e disagi spiega la varietà di atteggiamenti nei quali si espresse l’avversione alla guerra: gli scioperi industriali e i sabotaggi operai, l’aiuto ai prigionieri anglo-americani evasi, agli italiani braccati perché “ebrei”, al fuggi-fuggi dei soldati dell’esercito lasciato allo sbando dall’armistizio. Non sempre e non ovunque, ma spesso tra popolazione civile e partigiani si creò un rapporto di aiuto, talvolta di solidarietà e persino di coinvolgimento reciproco perché il fronte della guerra civile in atto non era più lontano, ma correva tangente alla quotidianità di tutti. Dare rifugio e cibo ai “ribelli”, metterli in contatto, trasportare armi e informazioni era una sfida agli occupanti e ai neofascisti, con un prezzo da pagare altissimo: incendi, violenze, punizioni esemplari. Eppure accanto alla Resistenza in armi prese forma un fenomeno di «disobbedienza civile di massa» che non aveva precedenti nella nostra storia, che era un frutto anomalo della cultura fascista del «credere, obbedire e combattere», e che costituisce per noi un lascito prezioso.

Ma il solo desiderio di pace non avrebbe avuto la forza di dare forma a una nuova convivenza civile.
Su questo desiderio di pace, che aveva moventi diversi, dall’ispirazione religiosa al più elementare istinto di conservazione, s’innestò un progetto politico di cesura netta con l’esperienza del Ventennio. A radicare questo progetto nell’esperienza della Resistenza armata e nella cospirazione clandestina fu una minoranza, alcune migliaia di antifascisti, donne e uomini delle generazioni precedenti, che tornati dall’esilio, liberati dal carcere e dal confino in cui erano relegati, fondarono o rifondarono i partiti politici messi vent’anni prima fuorilegge, dal cattolico al liberale, dal comunista e socialista al Pd’A e seppero dare, non solo coordinamento militare e organizzativo alle bande diventate nel tempo brigate, ma soprattutto spessore e orizzonti ideali a quella “rivolta” contro la guerra nazifascista. In quell’orizzonte c’erano i diritti della persona, l’uguaglianza di sesso e di religione, il ripudio del razzismo, la giustizia sociale, le libertà di una società aperta, le dinamiche democratiche della rappresentanza, la prospettiva di un’Europa affratellata e in pace. Un disperato desiderio di pace e un rigetto della guerra si ritrova alla base di quella che è stata definita l’altra faccia della Resistenza: il rifiuto che i militari italiani prigionieri in Germania oppose al reclutamento nella RSI. Mussolini aveva dichiarato che si sarebbe dovuto vergognare se tra gli IMI non avesse potuto raccogliere almeno 20.000 volontari per le sue forze armate. Ebbene dovette vergognarsi davvero: perchè una resistenza tanto silenziosa quanto coraggiosa fu quella che la stragrande maggioranza dei 600.000 italiani sostennero nei campi di internamento, resistendo a fame, freddo, violenze e lavoro schiavo, con un’altissima mortalità, pur di non tornare a vestire la divisa fascista.

Sappiamo che la Resistenza non fu un’esperienza lineare e univoca, né i venti mesi di guerra civile, contro i fascisti e contro i tedeschi, furono un catalogo di gesti eroici e di consapevolezza politica: tutt’altro. Se tutte le guerre sono cruente, quella civile ha un di più di accanimento e ferocia perché, come scrive Tucidide della guerra del Peloponneso, vi si violano tutte le leggi umane e ci si uccide tra fratelli. Da un lato una violenza terrificante fu dispiegata dagli ex-alleati divenuti occupanti e decisi con l’operazione Achse a punire i traditori italiani, si scatenò una «guerra ai civili» e ai «banditen» punteggiata dal centro al nord Italia di stragi, massacri, rappresaglie. Dall’altro la guerriglia partigiana, i colpi dei GAP e delle SAP furono un’opposizione senza esclusione di colpi e il clima di brutalizzazione dilagò senza argini nella vita degli italiani. «Una delle colpe più grandi del fascismo – ha scritto nel suo diario Piero Calamandrei- è stato uccidere il senso della patria», una patria fascista che chiedeva il sacrificio della vita perché le aquile imperiali tornassero a volare sui colli fatali di Roma, una patria tronfia di una propria presunta superiorità razziale, una patria matrigna. Carlo Rosselli, in esilio aveva scritto «la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni ma coincide con la patria di tutti gli uomini liberi». Nel crollo dello Stato dopo l’8 settembre, collassò certamente la patria fascista, ma si fece strada anche la patria degli uomini liberi di scegliere, cui pensava Rosselli.

Clemente Ferrario, partigiano garibaldino a 18 anni, descrive con un’immagine folgorante non la morte della patria, ma la sua personale riscoperta della patria. Siamo a Pavia nel settembre 1943 «quella sera in corso Cavour c’era poca gente e ho visto due SS alti, biondi, uno a fianco all’altro, non camminavano sul marciapiedi, ma in mezzo alla strada. Cinquanta metri dopo altri 2 SS. Erano i padroni della città […] Prima mi sentivo antifascista, in quei giorni ho preso coscienza che c’era una patria da difendere, da liberare dallo straniero».
Al rifiuto della guerra, al progetto dell’antifascismo politico, si aggiunse e per taluni prevalse il dovere di liberare l’Italia dallo straniero. «E come potevano noi cantare /Con il piede straniero sopra il cuore» scrisse Quasimodo. E’ questo l’elemento che più avvicina l’esperienza della Resistenza di 77 anni fa all’ odierna indomita resistenza ucraina contro l’aggressione russa. Ma conviene distinguere: troppo facile far indossare i panni della vittima innocente all’Italia di allora, vittima fu certo, ma dopo essere stata complice del Terzo Reich nello scatenamento della guerra, dopo averne emulato la politica di persecuzione antiebraica, prima nei diritti, poi volenterosamente collaborando alla deportazione e al progetto genocida. Chi relativizza l’importanza della Resistenza pare ignorare la realtà storica del fascismo: un colposo rifiuto della conoscenza storica, una smemoratezza strutturale consente narrazioni edulcorate del fascismo, ne minimizza il carattere totalitario e bellicista, così legittimando ambigue simpatie per un’esperienza catastrofica E così, riproposto con qualche variazione onomastica o appena camuffato in superficie, oggi, il fascismo riemerge nella cronaca e sfida la democrazia italiana.

Ma ricordiamolo: la Liberazione italiana non vide solo la sconfitta delle truppe del TR, la scomparsa delle sue polizie, la fine delle ville Tristi create in ogni città per torturare i prigionieri, ma fu la sconfitta di un ventennio di dittatura violenta, imperialista e razzista, fu l’avvio di una transizione istituzionale che cancellò dalla nostra storia la monarchia corresponsabile col fascismo. E aprì una fase costituente che diede basi solide e lungimiranti alla democrazia italiana, capace negli anni di farsi protagonista della costruzione di un’Europa unita. Non sono questi dei cantieri chiusi, ma aperti al lavoro delle generazioni presenti e future, se non vogliamo che la costruzione si blocchi dobbiamo lavorarci tutti, con una manutenzione attenta e un impegno costante fatto di idee e di progetti di ampio respiro. Anche quella pace conquistata a così caro prezzo richiede – e lo vediamo in questi tempi bui – una manutenzione saggia e avveduta, richiede che tutti quanti, statisti, politici, uomini e donne investano in essa, creando arsenali di idee e non solo di armi, costruiscano trame di accordi, inventino regole e parole nuove per disinnescare le pulsioni aggressive, perché non vinca quello che Papa Francesco ha chiamato lo schema di Caino.

 

Prof.ssa Elisa Signori