La Sacra Scrittura di domenica 28 marzo

Il commento di don Michele Mosa. «Cristo Gesù, […] svuotò se stesso»

Due cuori che si incontrano e si confidano: quello di Paolo e quello della Chiesa di Filippi, la prima comunità fondata dall’Apostolo in Europa. L’inno che ascoltiamo – secondo gli esegeti – non è di Paolo ma appartiene alla tradizione precedente ed esprime la fede della Chiesa che Paolo stesso ha ricevuto e trasmette: Cristo è il Dio vicino, il Dio incarnato, il Dio che si è svuotato – “kenosis” è il vocabolo geco – fino a morire sulla Croce. Per gli uomini. L’inno non si limita a dire cosa ha fatto Gesù ma ci richiama il modo in cui l’ha fatto: non si tratta semplicemente di ricordare, richiamare il mistero fondamentale del cristianesimo – l’inno sembra infatti il Vangelo riassunto in una poesia –, si tratta di descrivere il modo in cui il Dio del Vangelo si muove. Di Dio mai si era detto che si era svuotato, mai più lo si dirà: la tentazione dell’Onnipotenza, della gloria del Faraone attribuita a Cristo (e ai suoi rappresentanti) è ancora presente nella Chiesa eppure – lo sappiamo bene – basta leggere con attenzione Giovanni per accorgersi che la Gloria si manifesta nella sua pienezza sulla Croce. La Croce è la manifestazione gloriosa di questo Dio. Anche i Greci e i Romani conoscevano forme di incarnazione degli dei, per gli Egiziani il faraone è un dio, incarna in terra il dio Sole-Osiride. Nel cristianesimo però l’incarnazione si compie attraverso lo svuotamento, la spogliazione e l’abbassamento: Cristo è il Dio folle e ci chiede – lo dirà ai Corinzi – di essere folli come lui. Scriveva Adolphe Gesché: «Il Verbo ha fatto parentesi (epoché) sulla sua forma divina per poter esistere, essere là (da-sein) per noi (pro nobis). Dio è capace di rinunciare alla sua trascendenza». E p. Alberto Maggi gli fa eco: «Solo un Dio pazzo poteva pensare di diventare un uomo. Ma chi gliel’ha fatto fare al Signore di lasciare il privilegio della condizione divina per assumere la debolezza della condizione umana?». Accettare questa scelta è difficile, ancor di più accettare la modalità con cui la scelta stessa si realizza: «È stato Cristo ad abbassarsi, non è stato abbassato: nessuno – diceva Soren Kierkegaard –, né in cielo, né sulla terra, né negli abissi poteva abbassarlo». Ciò è talmente scandaloso che non può essere ammesso da nessun cammino religioso: pensare che Dio ha rinunciato a ciò che lo fa Dio — forse esagero — mi sembra suoni quasi una bestemmia, eppure è proprio questo il cuore della fede cristiana, sul quale non poteva non esserci una rottura con quanti volevano semplicemente una continuità con la fede ebraica… (e con il comune, e ancor oggi diffuso, senso religioso e/o la cosiddetta spiritualità). Se è vero – e credo sia vero – che nessuno è ateo: tutti abbiamo i nostri dei, dobbiamo allora scegliere quale dio seguire. Non dico semplicemente in quale dio credere ma seguire: non basta infatti dirsi cristiani, bisogna poi, come Cristo, svuotarsi di se stessi per condividere tutto, anche la morte, con gli altri. Questo farà Paolo: tutto a tutti, in qualsiasi circostanza, per vivere il Vangelo. Questo diventerà poi anche annuncio del vangelo. È la logica dell’amore.

 

Don Michele Mosa