La Sacra Scrittura di domenica 28 settembre

Il commento di don Michele Mosa. “Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta”

Di Don Michele Mosa

 

La parabola di Lazzaro e del ricco Epulone racconta la storia più antica del mondo: quella dell’arte di non vedere chi soffre accanto a noi. Epulone non è cattivo, è semplicemente maestro nell’ignorare. Lazzaro giace alla sua porta, non è nascosto in periferia è lì, davanti a tutti: ci inciampi. Eppure, diventa invisibile attraverso un atto quotidiano di cecità volontaria. Questa cecità selettiva è la nostra specialità moderna. Attraversiamo città piene di senzatetto guardando lo smartphone. Compriamo vestiti prodotti da bambini sfruttati, ma il prezzo conveniente ci distrae dall’origine. Sappiamo che mentre ceniamo qualcuno muore di fame, ma abbiamo perfezionato l’arte di sapere senza sentire. Il vero scandalo della parabola non è la punizione nell’aldilà, ma la nostalgia di Epulone. Dagli inferi implora Abramo di mandare Lazzaro dai suoi fratelli per avvertirli. Improvvisamente ricorda Lazzaro, ne pronuncia il nome, si preoccupa della famiglia. Dove era questa memoria, questa compassione quando poteva servire? È la sindrome del rimpianto tardivo: piangiamo i morti che abbiamo ignorato da vivi. Celebriamo post-mortem artisti che abbiamo fatto morire di fame. Commemoriamo vittime di ingiustizie che abbiamo tollerato in silenzio. Erigiamo monumenti a chi abbiamo reso invisibile. Epulone nell’aldilà sviluppa una sensibilità che in vita si era accuratamente negato. Ma Abramo è implacabile: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti si convinceranno». Il problema non è la mancanza di informazione.

Viviamo nell’era dell’informazione totale eppure perfezioniamo l’indifferenza. Trasformiamo tragedie in statistiche, persone in numeri, sofferenze in notizie da consumare. Sviluppiamo anticorpi psicologici che ci proteggono dalla consapevolezza del dolore altrui. Questa, commenta Papa Francesco, “è la cultura dell’indifferenza”. La genialità di Epulone sta nell’aver trasformato l’indifferenza in normalità. Non tortura Lazzaro: semplicemente vive come se non esistesse. È violenza perfetta perché invisibile, sistema oppressivo mascherato da quotidianità. L’indifferenza non è neutralità: è complicità attiva mascherata da passività. Oggi siamo tutti Epulone. Abbiamo Lazzari alla porta – migranti respinti, lavoratori sfruttati, malati mentali emarginati – ma abbiamo architettato società che li rendono invisibili. Periferie lontane, gated communities (lo dico in inglese ma non è altro che un ghetto dove siamo tutti uguali e viviamo di un pensiero unico: vedi gruppi sui social), algoritmi che filtrano notizie scomode: tutto concorre a proteggere il nostro sguardo.

Il grande abisso della parabola non separa paradiso e inferno nell’aldilà, ma chi può permettersi l’indifferenza e chi ne subisce le conseguenze nell’aldiquà. Un abisso scavato quotidianamente da ogni atto di non-visione, da ogni gesto di attraversamento senza sguardo. La tragedia di Epulone non è la punizione finale, ma aver vissuto una vita dimezzata, privata della pienezza che nasce dal riconoscimento dell’altro. Non possiamo essere completamente umani proteggendoci dall’altrui umanità. La prossimità è destino, non scelta. Eppure, continuiamo a perfezionare l’arte del non vedere, sapendo che un giorno, forse, rimpiangeremo questa cecità volontaria. Ma allora sarà troppo tardi: l’abisso che avremo scavato con la nostra indifferenza sarà diventato invalicabile.