Di Don Michele Mosa
E viene quasi da sorridere. Re? Ma dove? Il solo trono che ha avuto è un pezzo di legno ruvido; il suo palazzo era una collina usata come discarica di condannati. Siamo gli unici al mondo noi cristiani che festeggiano un re sconfitto. Un re che muore. Un re che, se lo guardi con onestà, sembra tutto fuorché un re. Il paradosso è violentissimo. La religione ama la gloria, lo splendore, le processioni fastose. Cristo invece si presenta con un corpo ferito, sputato, inchiodato. Il mondo si inginocchia davanti ai vincenti, noi davanti a un perdente.
Sul Golgota tutti parlano di potere. «Scendi dalla croce e crederemo». Tradotto: mostraci che sei forte, che comandi, che puoi cambiare la realtà con un gesto. È la preghiera più antica dell’uomo: “Dio, fammi vedere che sei potente”. Gesù invece resta inchiodato. Resta impotente. Resta muto. E proprio lì sta la provocazione: è come se Dio rifiutasse di giocare al nostro gioco.
Perché se fosse sceso dalla croce, avremmo avuto un dio straordinario, onnipotente… e lontano. Invece Dio sceglie l’umanità fino in fondo, sceglie l’impotenza. Sceglie di essere un re che non salva se stesso pur di salvare noi. Un re che rinuncia a vincere pur di non smettere di amare.
E poi c’è l’altro paradosso, ancora più scandaloso. Il primo a entrare nel Regno non è un santo, non è un catechista, non è un prete. È un criminale. Uno che ha sbagliato tutto, fino alla fine. Gli bastano quattro parole: «Ricordati di me». Nessun merito, nessuna garanzia, nessuna promessa di cambiare vita. Un uomo in fallimento totale. E Gesù gli spalanca il paradiso. Così, senza curriculum, senza certificati, senza condizioni.
Che razza di re è uno che dà tutto a uno che non ha niente? Eppure, lì sta la regalità di Cristo: non dà secondo i meriti, dà secondo il cuore. Non premia i buoni, salva i perduti. Non cerca l’ordine morale, cerca chi ha bisogno. La sua giustizia non è un tribunale, è un abbraccio.
E allora la domanda è: vogliamo davvero che Cristo sia il nostro re? Perché se è lui il re, cambia tutto. Cambia il nostro modo di guardare i deboli, gli ultimi, i feriti, gli scartati. Cambia il nostro modo di pensare la Chiesa: meno troni, più piedi lavati. Meno applausi, più ferite curate. Meno potere, più prossimità. Una Chiesa con Cristo Re dovrebbe assomigliare più a un ospedale da campo che a un palazzo reale.
Cristo è un re scomodo. Troppo umano per i potenti, troppo misericordioso per i giusti, troppo libero per chi ama le regole più del Vangelo. È un re che ti guarda e ti chiede: “Lasciami regnare dove tu ti vergogni: nella tua fragilità”. Oggi celebriamo un re che regna per contatto, non per distanza. Che salva stando dentro la storia, non sopra di essa.
Il mondo continua a cercare re che vincano. Noi seguiamo un re che ama. E in quel modo scandaloso, paradossale, provocatorio, nasce il vero regno: un regno in cui nessuno è irrecuperabile, nessuno è troppo tardi, nessuno è fuori. Da qui si capisce che il Vangelo non è un manuale di buone maniere, ma un terremoto. E Cristo Re è il suo epicentro. Continuiamo a lasciarci scuotere.






