La Sacra Scrittura di domenica 16 novembre

Il commento di don Michele Mosa. “Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto"

Di Don Michele Mosa

 

Una promessa che risuona consolatrice nelle orecchie di chi ascolta. Ma conviene fermarsi e chiedersi: questa parola non è piuttosto un’accusa velata alla nostra fede? La questione teologica è dirompente. Se Dio conta ogni capello, se la sua provvidenza scende fino a queste minuzie, perché allora i martiri muoiono? Perché i bambini soffrono? Perché la storia non cessa di essere una carneficina? O quella promessa vale solo per i discepoli in fuga? Solo per chi sceglie di salvarsi?

Ecco il problema: abbiamo trasformato questa parola in una medicina anestetica. La recitiamo ai sofferenti come se fosse una garanzia assicurativa contro il dolore. Ma Luca la pronuncia nel contesto della persecuzione, quando Gesù avverte i suoi che saranno condotti davanti ai tribunali e messi in carcere. Non è una promessa di impunità fisica. È un’affermazione sulla significanza: anche quando tutto sembra perso, anche quando il corpo viene distrutto, la persona rimane intera agli occhi di Dio.

Il capello che cade non è perduto nel nulla cosmico. Non scompare in un’indifferenza universale. Viene contato, visto, trattenuto nella memoria eterna. Questa è la vera bestemmia contro il nichilismo. Non che Dio impedisca la sofferenza, ma che la sofferenza non sia mai fine a se stessa, dispersione senza significato. Ecco allora che, proprio a partire da questa consapevolezza, si apre un varco nella nostra responsabilità: se Dio si prende cura di ciò che appare minimo, come possiamo noi restare ciechi davanti al dolore altrui o al nostro stesso smarrimento? La promessa che ci è stata consegnata non è una coperta che ci ripara dai venti della vita, bensì una chiamata a vegliare, a non lasciarci andare all’indifferenza; è un invito a custodire perfino ciò che sembra insignificante, perché nulla va perduto agli occhi di Dio. In questa prospettiva si fa ancora più urgente la domanda: come possiamo noi, interpellati da uno sguardo così attento, permetterci di vivere con leggerezza, lasciarci scivolare addosso la sorte dell’altro? La vera fedeltà, dunque, non sta nel pretendere che il male venga cancellato, ma nel restare, come Dio, presenti anche nelle pieghe oscure dell’esistenza, certi che ogni frammento, ogni dolore, ogni caduta trova senso proprio dentro quello sguardo che non dimentica, che non lascia sfuggire nulla, e che trasforma la perdita stessa in un luogo di incontro e di memoria viva.

Questa promessa non è dolcezza. È severità mascherata da tenerezza. Forse il vero scandalo della fede non è che Dio permetta il male – questo almeno lo comprendiamo nel dialogo con la tradizione. Lo scandalo è che Dio non distoglie lo sguardo. Nemmeno di fronte all’orrore della croce. Che ogni capello che cade, ogni vita che si spegne, viene fissato nello sguardo di chi non dimentica.

Oggi, nel nostro disincanto, diamo per scontato che Dio sia lontano, indifferente, occupato in questioni cosmiche. La promessa di Gesù è il suo rovesciamento totale: il Cielo è ossessionato da noi uomini, fino a questa ridicola conta di capelli. Ridicola? Forse. Eppure, è qui che risiede la fede vera: non nella speranza di un Dio che risolve i nostri problemi, ma nella certezza di un Dio che non ci abbandona nel buio assoluto. Che ci guarda mentre cadiamo.

Questa non è consolazione. È testimonianza. E la testimonianza è tutto ciò che ci rimane quando il dolore ha consumato le parole.