Di Don Michele Mosa
Nessuno capì. Pensavano al tempio di pietra, ma Gesù parlava del tempio del suo corpo. E con questa frase, apparentemente enigmatica, il Vangelo di Giovanni rovescia ogni immagine di Dio: il luogo del divino non è più un edificio, ma un corpo. Fragile, ferito, umano. Dio non abita nei santuari di marmo, ma nella carne che trema, nelle mani che lavorano, nei volti che piangono e sperano ancora. Il corpo di Gesù è tempio perché è la nuova geografia di Dio: non il “sacro separato”, ma la vita concreta. Quando questo corpo viene spezzato, non viene distrutto: diventa promessa. Il cristianesimo non nasce nel trionfo, ma nel fallimento che si trasforma in vita. È la fede che osa dire: anche ciò che muore può fiorire di nuovo. La risurrezione non cancella la croce, la attraversa. E allora, chi si sente stanco, chi ha perso la fiducia, chi si accorge che il proprio corpo non regge più, non è fuori dalla storia della salvezza: ne è piuttosto il centro. La fede non è per i forti, ma per chi vacilla. Gesù non risorge per smentire la morte, ma per abitarla dall’interno e aprirla. Le ferite del Risorto non sono nascoste: sono la prova che ogni dolore può diventare luce. Forse oggi molti cristiani non sperano più perché hanno confuso la speranza con l’illusione. Ma la speranza evangelica non è cieca: è la capacità di credere che dentro la fragilità si nasconde una forza che non viene da noi. Non è ottimismo, è resistenza spirituale. È la scelta di non chiudere il cuore, anche quando il mondo sembra finito. È credere che Dio non ricostruisce templi di pietra, ma vite spezzate. “Parlava del tempio del suo corpo”: e oggi quel corpo è anche il nostro. Ogni volta che rialziamo lo sguardo, ogni volta che una ferita non diventa odio, ogni volta che la paura lascia spazio a un gesto d’amore, la risurrezione accade. Non in un lontano futuro, ma qui. Nelle nostre fragilità che, misteriosamente, si fanno luogo di incontro con Dio. Il corpo fragile che risorge è la parabola di tutti noi: crepe che diventano porte, dolore che genera speranza, morte che prepara la vita. Non serve un tempio nuovo: serve credere che il tempio siamo noi. E che in ogni corpo ferito, Dio continua a fare Pasqua.






