La Sacra Scrittura di domenica 9 novembre

Il commento di don Michele Mosa. "Ma egli parlava del tempio del suo corpo"

Di Don Michele Mosa

 

Nessuno capì. Pensavano al tempio di pietra, ma Gesù parlava del tempio del suo corpo. E con questa frase, apparentemente enigmatica, il Vangelo di Giovanni rovescia ogni immagine di Dio: il luogo del divino non è più un edificio, ma un corpo. Fragile, ferito, umano. Dio non abita nei santuari di marmo, ma nella carne che trema, nelle mani che lavorano, nei volti che piangono e sperano ancora. Il corpo di Gesù è tempio perché è la nuova geografia di Dio: non il “sacro separato”, ma la vita concreta. Quando questo corpo viene spezzato, non viene distrutto: diventa promessa. Il cristianesimo non nasce nel trionfo, ma nel fallimento che si trasforma in vita. È la fede che osa dire: anche ciò che muore può fiorire di nuovo. La risurrezione non cancella la croce, la attraversa. E allora, chi si sente stanco, chi ha perso la fiducia, chi si accorge che il proprio corpo non regge più, non è fuori dalla storia della salvezza: ne è piuttosto il centro. La fede non è per i forti, ma per chi vacilla. Gesù non risorge per smentire la morte, ma per abitarla dall’interno e aprirla. Le ferite del Risorto non sono nascoste: sono la prova che ogni dolore può diventare luce. Forse oggi molti cristiani non sperano più perché hanno confuso la speranza con l’illusione. Ma la speranza evangelica non è cieca: è la capacità di credere che dentro la fragilità si nasconde una forza che non viene da noi. Non è ottimismo, è resistenza spirituale. È la scelta di non chiudere il cuore, anche quando il mondo sembra finito. È credere che Dio non ricostruisce templi di pietra, ma vite spezzate. “Parlava del tempio del suo corpo”: e oggi quel corpo è anche il nostro. Ogni volta che rialziamo lo sguardo, ogni volta che una ferita non diventa odio, ogni volta che la paura lascia spazio a un gesto d’amore, la risurrezione accade. Non in un lontano futuro, ma qui. Nelle nostre fragilità che, misteriosamente, si fanno luogo di incontro con Dio. Il corpo fragile che risorge è la parabola di tutti noi: crepe che diventano porte, dolore che genera speranza, morte che prepara la vita. Non serve un tempio nuovo: serve credere che il tempio siamo noi. E che in ogni corpo ferito, Dio continua a fare Pasqua.