La Sacra Scrittura di domenica 26 ottobre

Il commento di don Michele Mosa. “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano”

Di Don Michele Mosa

Dunque, due uomini pregano. Uno è un fariseo disciplinato, l’altro un pubblicano corrotto. Sapete già come va a finire: il cattivo vince, il buono perde. Fine della storia. Lezione imparata: sii umile, non essere arrogante. Ma aspettate. E se vi dicessi che abbiamo capito tutto al contrario? Il fariseo non mentiva. Digiunava davvero due volte a settimana. Pagava effettivamente le decime. Non era un ladro, un adultero, un truffatore. Era tutto ciò che diciamo di voler essere anche noi: educato, coscienzioso, responsabile. Era il tipo di persona che oggi farebbe yoga ogni mattina, mediterebbe regolarmente, mangerebbe biologico e citerebbe Rumi, il poeta sufi islamico del sec. XIII, su Instagram. Era, in altre parole, uno di noi. E questa è precisamente la bomba che Gesù voleva far esplodere.

Viviamo nell’era della crescita personale. Milioni di persone meditano, praticano mindfulness, seguono guru, leggono libri di spiritualità, frequentano ritiri. Il mercato del benessere spirituale vale miliardi. Tutti cercano di evolversi, migliorarsi, elevarsi. Ma ecco la domanda scomoda: e se tutto questo fosse solo un fariseo moderno che prega nel tempio della consapevolezza? Il problema del fariseo non era che faceva cose buone. Era che quelle cose buone erano diventate una scala, un metro di paragone, un sistema di punteggio. “Non sono come gli altri uomini”: è la frase chiave. Aveva trasformato la pratica spirituale in un curriculum da presentare a Dio e a sè stesso.

Suona familiare? Quante volte abbiamo contato i giorni delle nostre novene (come i grani della corona)? Quante volte abbiamo usato il nostro percorso spirituale come prova del nostro valore? Il pubblicano invece non aveva niente da offrire. Nessun rendiconto positivo. Nessuna medaglia di merito. Solo questo: “Dio, abbi pietà di me, peccatore”. Non stava recitando un copione di umiltà. Non stava fingendo di essere peggio di quello che era per apparire più santo. Stava semplicemente riconoscendo la realtà nuda e cruda: io non basto. Non sono sufficiente. Ho bisogno di qualcosa che non posso produrre con i miei sforzi. E Gesù dice che lui – proprio lui – tornò a casa giustificato. Ecco la provocazione vera: perché pratichi? La pratica spirituale non dovrebbe costruire un sé più grande e impressionante. Dovrebbe sgretolarlo. Non dovrebbe darti più sicurezze, ma toglierti le illusioni. Non dovrebbe farti sentire superiore, ma radicalmente inadeguato – e, paradossalmente, libero proprio per questo. Il fariseo cercava giustificazione attraverso le sue opere. Il pubblicano trovò giustificazione attraverso il riconoscimento della propria insufficienza. Uno costruiva, l’altro si arrendeva. Uno accumulava meriti, l’altro si apriva alla grazia.

La trappola più pericolosa del percorso spirituale è il percorso spirituale stesso. Più siamo consapevoli, più rischiamo di usare quella consapevolezza come prova del nostro valore. Più meditiamo, più rischiamo di trasformare la meditazione in un trofeo. Il fariseo era serio. Era impegnato. Era tutto ciò che pensiamo sia necessario. E proprio per questo era perduto. Perché aveva dimenticato l’unica cosa che conta: non siamo noi a salvarci. Non con lo sforzo, non con la disciplina, non con la consapevolezza. Il pubblicano lo sapeva. Non perché fosse più intelligente o più santo. Ma perché aveva toccato il fondo, e lì aveva trovato l’unica verità che libera: io non basto, e va bene così. Non resta che domandarci: stiamo pregando come il fariseo o come il pubblicano? Perché la differenza non è nelle azioni. È in ciò che il cuore fa di quelle azioni.