Di Don Michele Mosa
Difficile da accettare. Perché siamo cresciuti con l’idea che valiamo se siamo utili, se produciamo risultati, se lasciamo il segno. Così anche nella Chiesa: il parroco che misura il suo successo dal numero dei fedeli alla celebrazione domenicale (o alla cena in oratorio); la catechista che conta quanti ragazzi rimangono in parrocchia dopo la cresima; il volontario che calcola quante famiglie ha aiutato con i pacchi alimentari. Tutto sembra misurabile, valutabile, quantificabile.
Gesù ribalta i criteri: non siete indispensabili, non siete padroni, non siete voi la salvezza. Siete servi. Non significa che non servite a nulla, ma che il vostro servizio non è possesso, non è merito, non è titolo di gloria. È risposta a una chiamata, è collaborazione al progetto di Dio.
Pensiamo alla vita quotidiana. Una mamma che cucina ogni giorno non pretende che i figli la applaudano. Un papà che accompagna il figlio allo sport non aspetta che gli venga fatto un monumento. Sono gesti normali, silenziosi, e proprio per questo essenziali. Il Vangelo ci invita a vivere il servizio con la stessa semplicità: non come spettacolo, ma come respiro.
Siamo onesti e diciamolo: nella Chiesa ci piace sentirci indispensabili. Il parroco che non delega perché “nessuno lo fa come me”. Il laico impegnato che si offende se non viene ringraziato pubblicamente. I gruppi che lottano per la visibilità più che per annunciare il Vangelo. E qui la parola di Gesù ci smonta: siete servi, non padroni. La missione non è vostra, è mia.
Questa è una notizia dura, ma liberante. Perché ci dice che non tutto dipende da noi. Non siamo noi a garantire il futuro della Chiesa, non siamo noi a decidere se il Regno di Dio cresce o no. È il Signore che guida la storia. Noi siamo strumenti fragili, ma scelti. Collaboratori limitati, ma preziosi.
Essere “servi inutili” significa vivere senza cercare applausi. Non significa non avere valore, ma non mettersi al centro. Significa fare il bene senza aspettare riconoscimenti. È la logica del Regno: il chicco di grano che muore per portare frutto, il lievito che scompare nella massa ma fa crescere il pane.
Forse oggi la Chiesa deve imparare questo più che mai. Non servono preti-star, che accentrano tutto su di sé. Non servono laici-manager, che trasformano le comunità in aziende. Servono comunità libere dall’ansia del successo e dall’idolatria dei numeri. Comunità che accettano di essere piccole, fragili, persino irrilevanti, ma affidate a Cristo.
Il Vangelo di oggi ci chiede una conversione di sguardo: smettere di credere che siamo noi i protagonisti e accettare di essere servitori. Servitori che non costruiscono per vanità, ma per amore. Servitori che non cercano di occupare posti, ma di lavare i piedi. Servitori che non misurano i risultati, ma vivono la fedeltà. (Forse ci vorrebbe anche una profonda riflessione sull’uso dei social: come ci presentiamo, come presentiamo le nostre iniziative, perché lo facciamo, perché si vede solo ciò che è riuscito bene…)
Così la Chiesa sarà più evangelica: meno concentrata su se stessa e più trasparente a Cristo. Sarà una comunità che non si vanta, ma ringrazia; che non calcola, ma si dona; che non si sente indispensabile, ma resta affidata allo Spirito.
Essere servi inutili non è umiliazione. È libertà. Perché se tutto è grazia, allora possiamo finalmente respirare: non dipende tutto da noi, ma da Dio. E questo ci permette di servire con gioia, senza ansia di prestazione, senza bisogno di applausi.