La Sacra Scrittura di domenica 21 settembre

Il commento di don Michele Mosa. “Nessun servitore può servire due padroni”

Di Don Michele Mosa

 

“Non potete servire due padroni”: una frase che duemila anni fa uscì dalla bocca di un predicatore palestinese e che oggi suona ridicola anche a chi non ha mai messo piede in una chiesa. Eppure, guardando come viviamo, viene da chiedersi se non avesse ragione lui. Non serve credere in Dio per riconoscere l’ipocrisia quando la vediamo. Il manager che predica l’equilibrio vita-lavoro mentre risponde alle mail alle 23. Il politico progressista che denuncia le disuguaglianze dal suo attico. L’influencer che promuove la “autenticità” mentre vende prodotti che non usa mai. La verità è che tutti serviamo qualche padrone, chiamiamolo Dio, soldi, successo o semplicemente “il sistema”. E tutti mentiamo su quale sia davvero quello principale. Guardiamo dove la gente passa davvero il suo tempo sacro. Non nelle chiese, ovviamente – quelle sono vuote. Ma nei centri commerciali la domenica pomeriggio, sui social media fino a notte fonda, davanti alle piattaforme di trading che promettono ricchezza immediata.

I nostri veri luoghi di culto sono Amazon, Instagram, Facebook. I nostri profeti sono gli influencer che ci vendono stili di vita impossibili. Le nostre preghiere sono le notifiche push che ci tengono incollati allo schermo. Anche il più convinto ateo ha i suoi rituali sacri: il check del conto in banca ogni mattina, l’ossessione per i like sui social, la corsa all’ultimo modello di smartphone. Abbiamo sostituito la messa domenicale con il Black Friday, la confessione con le recensioni online, i santi con le celebrity. E funziona meglio del cristianesimo, perché promette risultati immediati e tangibili. Compri, quindi esisti. Consumi, quindi sei felice. Accumuli, quindi hai valore. Almeno chi non crede ammette apertamente di non avere una morale assoluta.

Il cinismo ha un pregio: è trasparente. Ti dice chiaramente che nella vita conta solo il successo, il denaro, il potere. Non ti vende illusioni di purezza o coerenza morale. Ma ecco il paradosso: anche chi rigetta ogni forma di spiritualità finisce per creare i propri assoluti. Il lavoro diventa missione, il brand personale diventa identità, la crescita economica diventa senso della vita. Sostituiamo Dio con il PIL, l’eternità con la pensione, il paradiso con la casa al mare. E ci convinciamo che sia più razionale, quando in realtà è solo più materialistico.

La frase di duemila anni fa aveva colto nel segno: non si possono servire due padroni perché prima o poi bisogna scegliere. E tutti, credenti e non credenti, facciamo la stessa scelta: scegliamo quello che ci conviene di più nel momento. La differenza è che alcuni se ne vergognano e si nascondono dietro belle parole, altri lo ammettono candidamente. Ma la sostanza non cambia: siamo tutti inginocchiati davanti all’altare del nostro interesse personale.

Forse l’unica religione davvero universale è quella del denaro. Non ha bisogno di fede, perché i suoi miracoli sono visibili e immediati. Non chiede di credere nell’aldilà, perché promette il paradiso qui e ora. Non minaccia punizioni eterne, perché le ricompense sono immediate e concrete. E tutti, credenti e non credenti, agnostici e atei militanti ci inginocchiamo devotamente davanti allo stesso dio: quello che abita nei nostri portafogli e nei nostri conti correnti. Almeno su questo, finalmente, siamo tutti d’accordo.