Di Don Michele Mosa
Se chiudessimo gli occhi e provassimo a ricostruire l’atmosfera di “quella stanza al piano superiore” in cui Gesù sta cenando – la sua ultima cena con loro – con i discepoli, probabilmente ci verrebbero i brividi. Ormai è sera, il sole è tramontato: è buio. Solo la luce di qualche lanterna illumina i loro volti. Volti ancora turbati ed emozionati per quello che era appena accaduto: il Maestro aveva lavato i loro piedi. Si era inginocchiato davanti a loro, come uno schiavo. Ora si era seduto al suo posto, li guardava come solo lui sapeva fare leggendo nei loro cuori e parlava. Parlava di un comandamento nuovo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.
Nuovo: questo li sconvolge. Amare sanno cosa vuol dire. È il “Nuovo” che li turba, li intimorisce: è futuro che non conosci. Amare l’altro era legge di secoli, anche l’amore per il nemico era scritto nella Torah di Mosè: “Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a sé stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,5). Gesù però non aveva detto: “Amatevi gli uni gli altri”. Aveva aggiunto: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Lì stava il “nuovo”: in quel “come io… così anche voi”.
Poiché io ho amato voi, come io ho amato voi: sorgente d’amore e misura dell’amore è Gesù. In parole e azioni. Questo li preoccupa: partire da lui – senza di me non potete fare nulla – e vivere come lui. Partire da lui è facile, vivere come lui è il difficile. Perché lui, “Gesù di Nazareth – come dice Pietro –, passò beneficando e risanando tutti” (At 10, 38).
Amare è passare, non stare fermi. Alla finestra. Sul balcone. In sacrestia. O, per dirla come Papa Francesco, “non balconear la vita”. Perché “Gesù non è il Signore della comodità, è il Signore del rischio. Però apre tutte le porte della nostra vita, ci spalanca gli orizzonti, ci spinge a vivere intensamente, fino in fondo”.
Scendere nella piazza della vita: questo è il nuovo. Il nuovo che dice l’amore di Dio nell’amore del fratello. Strano? Solo in apparenza.
È ancora Giovanni a spiegarci l’ovvietà di queste parole: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20). E aggiunge: “E questo è il comandamento che abbiamo da lui”. “Questo”: notate l’insistenza. Senza mai dimenticare la sorgente segreta del nostro amare: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo”. Come lui ha amato noi, così anche noi siamo chiamati ad amarci.