“Benedetto XVI e Francesco, due innamorati di Cristo”

L'editoriale di don Michele Mosa sull'ultimo numero de "il Ticino"

Se con l’atto di rinuncia il papato si apriva alla modernità – con quel gesto infatti il Sommo Pontefice non solo scendeva dal trono di Pietro ma si spogliava di quell’aura di sacralità che lo rivestiva – con i funerali di Benedetto XVI si chiude definitivamente il secondo millennio. Il 31 dicembre 2022 segna lo spartiacque di una nuova epoca: non ci sono più alibi o ancore cui aggrapparsi per non prendere il largo. Prendere il largo: le parole con le quali Giovanni Paolo II, concludendo il Giubileo del Duemila, invitava la Chiesa a entrare nel terzo millennio. «“Duc in altum” (Lc 5,4). Pietro e i primi compagni si fidarono della parola di Cristo, e gettarono le reti. “E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci” (Lc 5,6)». Salpa. Lascia la tranquilla dimora del porto. O, se preferite ripartire dal monte Nebo, là dove Mosè, il grande condottiero d’Israele, morì, rimettetevi in marcia: la Terra promessa vi sta davanti ma voi siete ancora nel deserto. Deserto: luogo di morte o tempo di fidanzamento? Perché – anche e spesso lo dimentichiamo facendo del nostro punto d’osservazione non il migliore ma l’unico possibile – la realtà è più complessa di quello che appare. E a chi muore di fame – o ha paura della libertà/responsabilità – il deserto e la schiavitù – sì, perfino la schiavitù – sembrano meglio della Terra promessa. Terra dove scorre latte e miele, anche se per entrarvi bisognerà spargere molto sangue, o deserto? Detto così è forse troppo semplice, anzi semplicistico. Allora diciamolo così: meglio Mosè, il liberatore degli schiavi o Giosuè, colui che si fa carico di attraversare il Giordano? Meglio affrontare il faraone o fare di un coacervo di schiavi in fuga una nazione? Ecco, a me sembra che oggi stiamo dibattendo di questo: meglio Benedetto XVI o Francesco? Cioè meglio Mosè che muore con la Terra promessa negli occhi o Giosuè che guida Israele a prenderne possesso? Nessuno dubita – è certamente più conosciuto e citato e studiato – della grandezza di Mosè ma senza Giosuè saremmo ancora a vagare nel deserto (anzi saremmo sepolti sotto quelle dune sabbiose).

 

“Metterli l’uno contro l’altro è un pessimo servizio al Vangelo e alla Chiesa”

 

Francesco non è l’anti Benedetto XVI, come Giosuè non è l’anti Mosè. Ma non sono neppure l’uno la continuazione dell’altro: non sono semplici anelli di una catena ininterrotta. Francesco non è il successore di Benedetto, come questi non era il successore di Giovanni Paolo. Entrambi sono successori di Pietro.Metterli l’uno contro l’altro, o meglio esaltare le nostre simpatie, è un pessimo servizio al Vangelo e alla Chiesa, è un triste gioco al massacro senza né vinti né vincitori ma con una montagna di cadaveri. È inevitabile, e forse necessario, che anche nella Chiesa ci siano vedute diverse ma i “partiti” non dovrebbero trovare casa in essa: la diversità – e lo dicono per esperienza personale – è una ricchezza, sempre, anche quando è difficile da capire. Per evitare questa inutile e dannosa contrapposizione, cara al nostro ego ma oltremodo dannosa, credo si debba riscoprire il fine della loro vita (e della loro missione): l’annuncio del Vangelo. Il 25 settembre 2012, rivolgendosi ai presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa riuniti nella loro plenaria, Benedetto XVI aveva invitato a riflettere «sul perenne compito dell’evangelizzazione con rinnovata urgenza». Quell’invito, pochi mesi dopo, si tradurrà nell’ “Evangelium gaudium” di Francesco con la ormai celebre espressione «Chiesa in uscita». Benedetto e Francesco: prima che due Papi, due cristiani. Due innamorati di Cristo. Due cammini, una sola medesima meta: Cristo. Due vie diverse: il monastero e la strada. Per riprendere le parole di Antonio Tarallo: «il primo fugge il mondo per ritrovare Dio, il secondo si mette in strada per riportarvelo». Sono l’uno contro l’altro? Sono uno “tradizionalista” e “conservatore” e l’altro “progressista” e “moderno”? Mi sembra di vivere il déjà-vu della comunità di Corinto e le parole di Paolo: «È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?».

 

“Fratelli che discutono sì, guerre intestine no”

 

Alimentare inutili contrapposizioni – «io sono di Apollo, io sono di Cefa» – è davvero un errore. Grave. Le discussioni fanno bene e fanno crescere, le divisioni, spesso dal sapore ideologico e alimentante da preconcetti, no. Riscoprire il Vangelo, tornare discepoli, non pretendere l’aria del maestro forse non ci farà litigare di meno, ma di certo non ci dividerà: fratelli che discutono sì, guerre intestine no, grazie. Anche perché come scrisse Joseph Ratzinger nel 1971 in “Il nuovo popolo di Dio”: «Il concilio segna un passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario, ed il concetto conciliare contrario a “conservatore” non è “progressista”, ma “missionario”». O riprendendo le parole di Papa Francesco all’angelus dell’8 gennaio scorso: «Un cristiano non usa la durezza di chi giudica e condanna dividendo le persone in buone e cattive, ma la misericordia di chi accoglie condividendo le ferite e le fragilità delle sorelle e dei fratelli, per rialzarli. Vorrei dirlo così: non dividendo, ma condividendo. Non dividere, ma condividere».

 

Don Michele Mosa

 

(Foto tratta da Agensir)