“I femminicidi. Molto più di un problema normativo”

La riflessione di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

 

di Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

 

Il 2022 e il 2023 sono stati due anni drammatici quanto ai brutali femminicidi che si sono verificati. L’omicidio di Giulia Cecchettin è solo l’ultimo di una serie di tremendi fatti efferati, come l’uccisione di Giulia Tramontano, incinta di sette mesi, da parte del compagno, che per diverso tempo ha tentato di avvelenarla con veleno topicida, o quella di Concetta Marruocco, uccisa con circa quaranta coltellate dal compagno, o quella di Martina Scialdone, invitata dall’ex compagno ad una cena, per dei chiarimenti, cena tramutatasi in una trappola mortale.
L’elenco sarebbe ancora assai lungo. Preme allora riflettere sulle ragioni, criminologiche, sociali, psicologiche e, non da ultimo, filosofiche, del problema. Le contromisure messe in atto sul piano legislativo, infatti, non bastano. Non il “Codice Rosso” prima, né il “Codice Rosso Rafforzato” ora paiono infatti capaci  di debellare il fenomeno criminale in esame, poiché le norme esistono e sono sempre esistite, ma possono essere sempre e comunque violate, come è stato, in tema di corruzione, per le misure di cui alla l. 190/2012.
Serve allora una riflessione che non si fermi alla superficie e alle regole di procedura, occorrendo invece un’analisi più profonda, sulle ragioni psicologiche, psicanalitiche e filosofiche che conducono a reati così efferati, non dissimili, per gravità e ampiezza del fenomeno, ai reati mafiosi o a quelli dei c.d. “colletti bianchi”, come da me sostenuto in un precedente articolo –“In piedi Signori, davanti a una Donna” -.
Il tema non è solo l’inquadramento specifico della fattispecie – femminicidio e non genericamente omicidio o muliericidio o uxoricidio – ma quello del significato della relazione sentimentale. La relazione con una donna viene comunemente classificata, infatti, come relazione amorosa. Occorre forse però fare chiarezza su questo sostantivo, centrale nella storia dell’umanità. Nell’antichità  classica, Platone è stato forse il solo pensatore che ha enunciato la portata etica e spirituale dell’amore – non semplice “eros”, ma “agape” –. Mentre infatti i lirici arcaici come Archiloco o Semonide di Amorgo cantavano di un amore dissoluto, prevalentemente ridotto all’ambito del rapporto sessuale e con versi di vero e proprio spregio verso la figura femminile, Platone, in tre opere fondamentali, il Simposio, il Fedro e il Fedone, comprende come l’amore non sia la mera compiacenza carnale, pure descritta nel Simposio, ma come si tratti dell’incarnazione di un’idea, di un quid metafisico (Fedro e Fedone), nella ben espressa lotta tra il cavallo bianco (la virtù, l’amore, l’agape) e il cavallo nero (il vizio, la mera compiacenza carnale). Il mito della scelta che spetta all’auriga, chiamato a dare forza al cavallo bianco che lo conduce verso l’alto o al cavallo nero che lo trascina verso il basso rispecchia la libera scelta in capo all’individuo tra bene e male e, più in generale, sull’interpretazione virtuosa o viziata della vita e delle manifestazioni fenomeniche di quest’ultima, la prima e più importante delle quali è senza dubbio l’amore, al punto che Dante definisce l’essere umano proprio come “animale di libertà e d’amore”. Sulla linea platonica si pone altresì il dolce stilnovo, che canta di un amore galante, cortese, raffinato e rispettoso della libertà della donna, ben espresso nella celebre poesia “Al cor gentil rempaira sempre amore” di Guido Guinizelli.
Dante e Petrarca poi raggiungono l’apice di tale parabola sull’amore virtuoso, iniziata da Platone. Il Sommo Poeta, in particolare, sulla scorta del contenuto della Bibbia, ricomprende nella nozione di “amore” non solo quello verso l’altro sesso, ma anche verso il prossimo e gli altri e, nella sua forma più aulica, verso Dio. Bellezza, amore e bene (con la “b”, la “a” e la “b” minuscole) non possono infatti  essere compresi senza aver inteso la Bellezza, l’Amore e il Bene (con la “B”, la “A”  e la “B” maiuscole).
Nei secoli successivi, tuttavia, tale parabola celeste finisce per invertirsi. Alla filosofia di Kant, che, ancora, forse illudendosi, ripone fiducia nella bontà e nell’altruismo umani, definendo l’essere umano come “testa d’angelo”, subentra la dialettica del narcisismo e dell’egoismo, con Nietszche e Schopenhauer. In particolare, Schopenhauer, che, secondo i racconti dell’epoca, pare avesse tentato di molestare la vicina di casa, giunge a considerare l’amore come avente la sua radice solo nell’istinto sessuale, un inganno della natura, il cui unico scopo è la conservazione della specie. Nietszche, dal canto suo, nell’elogiare oltremodo, fino a sostituirla a Dio, l’immagine del superuomo, ossia, in realtà, niente più che l’uomo, con tutti i suoi limiti, instaura una non certo pregevole dialettica del narcisismo e dell’egoismo. Nietzsche, in particolare, asserendo che l’odio è il contrario eguale dell’amore, poiché chi ci odia in realtà ci ama, essendo cosa diversa il mero disprezzo, sottintende un’idea di amore come “voler possedere”, coerentemente, del resto, con l’ostentazione, nel proprio pensiero, della “volontà di potenza”. Ecco allora che “Noluntas” (Schopenhauer), “Volontà di potenza” (Nietszche), “Superuomo” (Nietszche) e “voler possedere” instillano negli animi degli ascoltatori una dialettica della malvagità (sotto il profilo morale) e del nichilismo (sotto il profilo filosofico). Ma questo non è l’amore, che è invece “pienezza” e “valore”; anzi, la “Pienezza” e il “Valore” (Platone, Dante, Petrarca) per antonomasia.
La tematica filosofica si riconnette qui a quella psichiatrica e psicanalitica: le ragioni psicologiche della commissione di un femminicidio. Il filo rosso che unisce queste due aree gnoseologiche risiede nella concezione di amore come “voler possedere”, nell’intendere la relazione quasi come la titolarità di un diritto reale sulla cosa, capace di esprimersi alla stregua del potere di fatto sul bene materiale, al limite del dettato letterale dell’art. 1140 del codice civile in tema di possesso, la privazione del qual possesso può, nell’ottica del femminicida, trovare risposta sanzionatoria con la privazione della vita della partner. La donna però non è certo degradabile a cosa, salvo voler aderire a una diversa forma di Stato, maschilista, non egalitario e, in definitiva, non democratico. Ragionare nella predetta logica presuppone inoltre una vera e propria deviazione mentale, per lo più nella forma del narcisismo, ben propagandato dalla predetta linea filosofica Nietszche –Schopenhauer. Occorre peraltro precisare, non intendendo prestare il fianco a esenzioni di penale responsabilità, che anche la patologia psichiatrica, pur capace di tradursi in un vizio di mente totale o parziale ai sensi degli articoli 88 e 89 del codice penale, non esclude il rimprovero e la pena a fronte della particolare crudeltà  ed efferatezza di un fatto di reato (Antolisei), poiché anche il pazzo e il minorenne, e in generale l’infermo di mente, è in grado, come fatto constare da attenti giuristi e filosofi del diritto, di comprendere le più basilari nozioni di “bene” e di “male”.
Il tema non è allora solo quello della pena, ma anche di un adeguato percorso educativo e psichiatrico, nonché di una rivalorizzazione del ruolo della cultura, della scuola e del libro cartaceo – Schopenhauer, pur tra i molti errori morali, qualcosa di buono l’aveva detto, rimarcando l’importanza centrale della lettura dei libri cartacei e come il leggerne molto sia fondamentale per la crescita dell’individuo (nell’opera minore “Del leggere e dei libri”), e non solo (per correggere l’etica del filosofo tedesco) per sapersi meglio difendere nella società, ma prima di tutto per un arricchimento etico.
Un altro tassello deve essere aggiunto, per comprendere il complesso quadro storico e filosofico all’origine del problema sociale dei femminicidi: il ruolo del dialogo. Socrate, come noto, riteneva che solo dialogando si può ricercare il sapere…e..(potremmo aggiungere)…non solo il sapere, ma anche l’amore e la comprensione del senso della vita. Il dialogo implica infatti un atteggiamento di armonia spirituale, di melodia sinfonica, di armonia con la natura, poiché noi siamo parti di una medesima realtà, di una medesima natura (in senso oggettivo, quale mondo fisico), e poiché anche la nostra natura (in senso soggettivo, quale foro interiore, quale psiche) è comune a tutti noi, non ne possiamo prescindere. Proprio allora partendo dalla basilare considerazione della comune condizione di esseri umani, ben si può comprendere il ruolo e l’importanza di avere un comune linguaggio, il linguaggio dell’amore, poiché l’essere umano è in primo luogo amore – come comprovano celebri massime, come quella di Antigone (“sono fatta per condividere l’amore, non l’odio”, come quella di Dante (“animale di libertà e d’amore”) e la celebre poesia di Guido Guinizelli “Al cor gentil rempaira sempre amore”. Ecco allora la corretta chiave di lettura: ciò che deve essere ricercato nella relazione è il completamento (come narrato nel mito platonico degli Androgini), che si raggiunge mediante l’unione (l’amore) e non mediante la contrapposizione (la violenza) né mediante il mero atto sessuale (parte materiale della relazione in sé però non autosufficiente). Occorre allora una riscoperta della cultura, del ruolo della scuola, del linguaggio parlato, dei libri cartacei, dell’umiltà, dell’autocritica, del dialogo e di quella linea di pensiero che da Platone… forse può essere ancora fatta rivivere! Insomma, le norme ci sono, ma non basta, servono la coscienza sociale e la fermezza morale di tutti gli operatori del settore, ma prima ancora dei privati cittadini. Come in quel caso in cui una donna venne violentata in pieno centro a Bologna e nessun passante si fermò per interrompere l’azione violenta del molestatore, in spregio al dovere di protezione dei consociati, principio derivante in primo luogo dai precetti universali (e definiti come principi universali dell’intero ordinamento, non solo di quello civilistico, dalla Corte di Cassazione) di comportamento secondo buona fede e correttezza.
Proseguendo sul crinale del mio ultimo articolo sulla corruzione, sono profondamente convinto che le leggi, per funzionare, presuppongano un assodato sostrato etico nella coscienza collettiva, che deve sempre essere verificato costantemente secondo le coscienze di noi tutti. Solo così si può rompere il clima di assuefazione alla violenza, sia essa violenza economica, come nel caso dell’usura, sia essa violenza contro le Istituzioni (il caso dei reati di corruzione e contro l’amministrazione della giustizia), sia essa minaccia alla vita dello Stato, come nel caso dell’associazionismo mafioso, sia essa violenza contro la persona e, in particolare, verso chi merita particolare tutela, come le donne e i bambini (il caso dei femminicidi, ma anche delle violenze sessuali e della pedofilia).