“Venditti per amico”

La testimonianza di Mons. Massimo Camisasca, Vescovo emerito della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, raccolta da Laura Zambianchi

Un ritratto dell’artista simbolo del cantautorato romano raccontato attraverso le parole di una delle persone che più hanno influito sulla sua crescita umana e spirituale: Mons. Massimo Camisasca (nella foto, ndr), Vescovo emerito della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, nonché fondatore della Fraternità sacerdotale San Carlo. A raccogliere la testimonianza di Mons. Camisasca è stata Laura Zambianchi. Laureata in Filologia e Storia all’Università di Pavia, da sedici anni insegna Italiano LS nel Regno Unito, in scuole superiori e centri dedicati al Lifelong Learning Sector. Giornalista pubblicista dal 2004, dal 2020 crea risorse didattiche per il portale IDA Loescher ed è co-autrice del libro “La vita è tutta un quiz” (Edizioni La Linea, 2021). Ha pubblicato con Paolo Jachia un saggio in Umberto Eco in “His Own Words “(Boston-Berlin, W. De Gruyter, 2017) ed è una delle responsabili di redazione della rivista semestrale LIA (Lingua In Azione), promossa dall’associazione Insegnanti di Italiano Lingua Seconda Associati. Collabora con giornali locali e siti web. Attualmente, sta completando il dottorato di ricerca nel Regno Unito.

 

 

                    Di Laura Zambianchi

 

“Ci vorrebbe un amico”, canta Venditti che, un amico, lo ha trovato nella persona di Mons. Camisasca con il quale ha da anni instaurato un rapporto fatto di dialogo, fiducia reciproca e confronto costante. Osservatore attento della cultura del suo Paese, la narrazione dell’ecclesiastico e accademico nativo di Milano nel 1946 ha la straordinaria capacità di saper toccare un ampio catalogo di temi e prospettive, quasi a reciprocare l’omaggio rivoltogli da Antonello Venditti nell’àmbito del volume “Dilexit Ecclesiam. Servitore della comunione. Scritti in onore di Mons. Massimo Camisasca in occasione del suo 75° genetliaco”.

 

Raggiungo Mons. Camisasca su Zoom, un po’ intimorita e, al tempo stesso, elettrizzata al pensiero di poter intervistare una persona per la quale ho profondo rispetto. Nonostante “la freddezza dello schermo” don Massimo ha un “fare” calmo e rassicurante, e mi mette subito a mio agio.

 

Lo rassicuro che avrei trascritto le sue parole fedelmente e l’intervista-testimonianza incomincia.

Lascio che sia lui a tenere saldo il timone della conversazione attingendo a domande-traccia che gli avevo inviato in vista della nostra chiacchierata.

 

È a Roma che tutto ha inizio. Nella Roma degli anni Ottanta, nel panorama musicale in ebollizione donde Antonello, nato nella Città Eterna l’8 marzo 1949, aveva già spiccato il volo ottenendo il passaporto per il successo grazie a brani dalla grande pregnanza melodica e di significato. Si dice che i ricordi abbiano la valenza di una fotografia, e non appena Monsignore inizia a parlare vedo “la maestà der Colosseo, er fontanone”, immaginando nitidamente lo scenario nel quale le vite di due persone apparentemente lontane si sarebbero presto intersecate.

 

«Siamo all’inizio degli anni Ottanta. Se avessi qui il mio diario potrei dirle anche il giorno, il mese e l’anno esatti, perché ricordo di aver annotato l’incontro con Antonello Venditti nel mio diario e ci saranno sicuramente annotati anche particolari che non rammento», esordisce il Vescovo, le cui prime parole costituiscono una potente conferma che è un rapporto che ha lasciato il segno quello instaurato con il cantautore nato “sotto il segno dei pesci”.

 

«Conoscevo già le canzoni di Venditti, ma molto superficialmente. Un giorno, qualcuno mi disse che il cantautore desiderava incontrarmi. Forse un suo agente conosceva qualcuno che era vicino a me, al momento non sono in grado di dirlo con esattezza. Fatto sta che abbiamo organizzato una cena a casa di amici miei a Roma».

 

Questo primo incontro ha una tale importanza, nella vita di entrambi, che vale la pena di soffermarci su qualche dettaglio e sul topos, ricorrente nella narrazione di monsignore, dell’invito a cena e della convivialità. Proprio come “l’ospite ideale” di plutarchiana memoria, l’artista romano apporta un contributo cruciale alla conversazione di quella sera: «Ci fu questa cena – continua monsignore, immerso nei ricordi – che durò a lungo. Parlammo molto. Io sono sempre molto curioso, soprattutto quando mi trovo di fronte a persone dalla genialità di Antonello. Mi interessano non tanto i particolari delle loro vite, quanto le fondamenta e l’evolversi del loro genio. Nel corso della cena Antonello mi rivelò la ragione del suo desiderio di incontrarmi: era rimasto colpito dalla persona e dalla forza spirituale di Giovanni Paolo II il cui pontificato era agli inizi. Lo definì come “un uomo piovuto da un altro pianeta” e condivise con me il sogno di esibirsi in piazza San Pietro, naturalmente alla presenza di Sua Santità. Tenga presente che all’epoca del mio primo incontro con Venditti non vi era stato ancora nessun concerto. La stagione dei concerti al cospetto del Papa sarebbe decollata negli anni a venire e, a distanza di tempo, resto impressionato dalla lungimiranza e dalla preveggenza di Venditti, che aveva già immaginato chiaramente qualcosa che sarebbe accaduto e si sarebbe sviluppato più avanti negli anni. Allora mi occupavo di Pubbliche relazioni tra CL e il Vaticano, e la proposta di Antonello mi sembrò impossibile: non avevo né l’autorità né la possibilità di portare avanti un progetto di quella portata, e la cosa non ebbe seguito».

 

Quella sera, però, attorno a un tavolo di una casa a Roma si stavano preannunciando i prodromi di un’amicizia che ha resistito al tempo e alla distanza. «Quella sera – prosegue don Massimo – il progetto si fermò ancor prima di partire ma, ciò che non si fermò, fu il nostro rapporto. Io non so cosa Antonello vide in me. Mi disse di aver visto una luce. Non so che luce abbia visto. Io penso la luce di una possibile amicizia. Io credo che ci sia una solitudine ultima in ogni grande artista».

 

Il poeta Franco Loi disse: «La parola usata sciattamente fa sciatta la nostra vita. La fa occasionale» e non c’è una parola buttata lì a caso nel racconto di Monsignore, che dipinge il suo rapporto con il cantautore di “Roma Capoccia”, che ai tempi della narrazione occupava già un ruolo di rilievo all’interno della scena discografica, con pennellate vivaci e precise. «Io non avevo alcuna pretesa. Quel mondo, il mondo della canzone, mi era sconosciuto. Era un universo che mi si apriva davanti. Successivamente, attraverso Antonello ho conosciuto altri artisti, ma in quegli anni ero fuori da quell’ambiente. La mia esperienza si riduceva a una cena con Francesco Guccini in occasione di un suo concerto con Claudio Chieffo. Penso che fosse nella Bergamasca. Si fermarono a mangiare in un ristorante e io li raggiunsi. Ascoltavo molto Guccini in quegli anni».

 

Sono tante le facce del prisma di questa amicizia sbocciata quasi dal nulla e Mons. Camisasca continua ad attingere a una ridda di ricordi che delineano a tutto tondo il ritratto di un Venditti che solo un amico intimo può compilare.

 

Ma torniamo a Roma, dove si consolida il legame tra il religioso e il musicista: «All’epoca io abitavo vicino a Santa Maria Maggiore – riprende il filo del discorso dopo la breve digressione musicale – e Antonello veniva a trovarmi in questo palazzo dove era stato avviato un seminario, un luogo di preparazione per giovani che sarebbero diventati preti. Sa, all’epoca avevo inaugurato una Fraternità Sacerdotale che poi si sarebbe sviluppata nel corso degli anni, e invitavo lì le persone che conoscevo, perché volevo che loro conoscessero i miei ragazzi e che i miei ragazzi conoscessero loro. C’era un ping pong in sagrestia e Venditti amava molto venire a giocare a ping pong con noi. Poi parlavamo. Io con lui. Lui con i ragazzi. Di tutto. Lui parlava, provocava, assentiva, chiedeva, sottolineava. Venditti è una persona imprevedibile: nella sua presenza io vedevo dunque una provocazione utile per i ragazzi del seminario che sarebbero andati in tutto il mondo e avrebbero quindi dovuto trovare le strade per parlare agli uomini di ogni sensibilità e provenienza. Ricordo bene questi pranzi e queste cene: qualche volta Antonello cantava, accompagnato da noi e dalla chitarra, ma non era (comprensibilmente) sempre propenso a “regalarci” la sua voce. Forse per non “svendersi”, forse perché non sempre un artista si sente pronto a esibirsi o forse, più semplicemente, temeva che la voce circolasse e che tutti avrebbero preteso che lui cantasse a uno schioccar di dita. Fatto sta che ogni tanto lo faceva, ed erano dei bei momenti. Gli incontri sono continuati anche quando noi siamo andati ad abitare a Casalotti, quartiere periferico di Roma lungo la via Boccea. Eravamo cresciuti di numero, ma lo stile dei nostri incontri non era cambiato: gli ingredienti erano sempre quelli della condivisione di cibo, della conversazione, dell’amicizia».

 

Ed ecco che ritorna il topos, cantato dai Greci e dai Romani, della convivialità attorno a un tavolo. Dello scambio di vedute. Uno scambio onesto, finalizzato a stimolare un confronto costruttivo, un dialogo profondo che ha innegabilmente contribuito a far crescere e cementare l’antico e perdurante rapporto di amicizia tra i due protagonisti di questo capitolo. La narrazione di Mons. Massimo, mai debordante, è costituita di episodi che si connettono l’uno all’altro, andando a scandire un ritmo di attesa nell’ascoltatore (o meglio, nell’ascoltatrice) che non osa interrompere quel flusso di immagini rappresentate da parole. «Lasciavo che fosse lui a portare i temi a me: io non volevo dare l’impressione, non è nelle mie corde, che lo volessi lì, tra di noi, per indottrinarlo. A parte che Venditti non si lascia indottrinare, questo è certo, ma lo scopo era comunque quello di comunicargli quello che io vivevo e accogliere quello che lui diceva. Poi c’era “l’altro itinerario”: andare a casa sua. In un primo tempo viveva in un grande residence di centinaia di abitazioni con una piscina e uno studio d’incisione. Alcune volte andavo da lui quando stava incidendo. Volevo vederlo in azione. Mi interessava vederlo in azione. Poi Venditti si è trasferito in un appartamento a Trastevere, mi pare in piazza Mastai Ferretti, e poi in una grande casa, sempre a Trastevere, dove non sono mai stato. Ho bellissimi ricordi dei quali parla lui stesso nel suo contributo a “Dilexit ecclesiam”. Mi invitava a vedere le partite in televisione, non solo dell’Atalanta ma anche della Roma e del Milan. Sa, all’epoca io ero a Bergamo e poi, nei quattro anni di Sacchi, sono diventato Cappellano del Milan e ho quindi conosciuto anche il mondo del calcio».

 

Come è ben risaputo, nel petto del cantautore batte un cuore giallorosso come testimoniano (anche) i versi da lui dedicati alla sua Roma “Gialla come er sole / Rossa come er core mio”. L’affinità tra queste due persone molto diverse, ma legate da un rapporto di profonda stima e complicità si trasferisce dunque dal mondo delle sette note a quello della sfera di cuoio. Proprio come una scatola cinese, al suo interno il racconto contiene altri aspetti di un Venditti a tratti inedito (almeno per la sottoscritta), un Venditti che si diverte a giocare a tennis da tavolo e che contribuisce, talvolta con qualche provocazione, alla formazione di giovani seminaristi e preti.

 

Questo racconto non intende tanto mettere a fuoco “vita e opere” di una pietra miliare della musica cantautorale nazionale, già impresa di altri testi dati alle stampe (o al web). Intende, invece, affiancare agli stralci biografici raccolte di aneddoti e ritratti di Venditti come artista e uomo. Pertanto, le istantanee scattate da Monsignore, affascinanti nella loro spontaneità, sono ben lungi dall’essere coartate in una successione più o meno organica alla quale viene preferito uno “stream of consciousness”, un flusso di coscienza di joyciana memoria.

 

«Siamo ancora buoni amici – ridò la parola a Mons. Massimo – anche se dalla fine del 2012, anno della mia nomina a Vescovo di Reggio Emilia, non ho più avuto la possibilità di mantenere i rapporti che avevo con Antonello a Roma. Non mi piacciono le relazioni telefoniche e quindi ultimamente ci siamo visti poco. Ricordo di essere andato a un suo concerto al PalaDozza a Bologna, credo quattro o cinque anni fa, e prima del concerto sono andato in camerino a salutarlo. Ci siamo sentiti recentemente».

 

Come ebbe a dire (anzi, a scrivere) Venditti stesso tra le righe del suo contributo a “Dilexit ecclesiam” in più di un’occasione ha sentito il bisogno della presenza dell’amico dietro il palco. Mi faccio coraggio, seppur temendo di veleggiare verso zone un po’ troppo delicate, e chiedo a Sua Eccellenza che cosa cercasse Venditti in lui pochi attimi prima di essere applaudito e invocato da migliaia di persone. «Quando presenzio ai suoi concerti ci salutiamo sempre in camerino e lui mi chiede la benedizione. Credo che la mia presenza prima dei concerti voglia dire “amicizia, rassicurazioni, ricevere forza e coraggio, sapere che è amato”. Per queste ragioni, a mio parere, è capitato che Venditti richiedesse la mia presenza prima di salire sul palco».

 

La storia è di quelle che potrebbero essere rubricate sotto la dicitura “rapporto tra padre spirituale e fedele”, ma monsignore sfata immediatamente quello che sembrerebbe legittimo, quasi lapalissiano, concludere: «Io non so che cosa abbiano prodotto in Antonello le mie risposte alle sue domande, non gliel’ho mai chiesto, e non mi considero il padre spirituale di Antonello. Mi considero un amico». Asserzione che non lascia spazio a dubbi e delinea chiaramente la posizione di don Massimo nei riguardi del cantautore di “Notte prima degli esami”.

 

È giunto il momento di avventurarci nella questione che più incuriorisce chi scrive: Mons. Massimo Camisasca raccoglie il mio “la” e inizia a scavare (con la solita lucida precisione) nella dicotomia religione-politica vendittiana, che si fonde in un sincretismo nel quale confluiscono vari elementi che si riflettono nella sua arte. «Antonello ha questa appartenenza a due chiese: la chiesa cattolica e il comunismo, secondo una modalità abbastanza originale. Mi spiego meglio: nei miei nove anni di episcopato a Reggio Emilia ho trovato comunisti ancora legati alla figura di Lenin, alla realtà dell’Unione Sovietica. Penso, invece, che il rapporto con il comunismo di Venditti sia un rapporto con un comunismo umanitario, con i diritti dei dimenticati e rappresenti una rivolta contro la società borghese, e in un certo senso le cose migliori del ‘68, a cui pure lui ha dedicato alcune canzoni».

 

Un ‘68 / ancora lungo da venire e troppo breve, da dimenticare… Non c’è dubbio che l’infanzia di Venditti sia stata di quelle difficili, argomento leitmotiv della biografia dell’artista che il racconto dell’amico sfiora per risalire al primo incontro del cantautore con la religione cattolica: «Il cattolicesimo io penso che lui lo abbia respirato in famiglia. C’è la figura della nonna che andrebbe studiata, esaminata, perché la prima canzone che Antonello ha scritto, all’età di 14 anni, gli è stata suggerita proprio dalla figura della nonna. E quindi troviamo un incontro, un mélange di queste due chiese che forse in Venditti quasi si combattono. Io lo trovo un comunismo umanitario. Non ho mai visto in Antonello un’esaltazione di Stalin, di Lenin, dell’Unione Sovietica. Lo vedo, l’ho visto anche irriverente nei confronti di certe figure, del Partito Comunista italiano. L’ho visto molto colpito dalla figura di Berlinguer e magari un po’ irriverente verso D’Alema. Tragga Lei le conclusioni dal testo di “Comunisti al sole”: io l’ho legata alla barca a vela che aveva D’Alema».

 

Monsignore osserva poi come dalle canzoni di Venditti emergano diversi elementi della sua personalità. Lo zibaldone poetico di Antonello è un pot-pourri denso di profumi diversi, nel quale “il nostro” documenta e analizza, con occhio socialmente sensibile, gli eventi che hanno caratterizzato la sua epoca. “La poesia non può discostarsi troppo dalla lingua quotidiana che noi stessi parliamo e sentiamo parlare. La poesia non può perdere il contatto col mutevole linguaggio dei comuni rapporti umani”, per dirla con Thomas Stearns Eliot, che scrive questa frase in Sulla poesia e sui poeti (Milano 1963, p. 1282), e in Venditti i legami della vita con le canzoni non tendono a essere nascosti dal velo dell’allegoria: al contrario, le sue canzoni nascono per lo più da fatti concreti.

 

Attraverso un linguaggio sfrondato di groppi artificiosi, Venditti può essere considerato come un cantore del suo tempo, «un cantautore autobiografico», per rubare le parole di Sua Eccellenza, che continua ad analizzarne il caleidoscopio musicale: «Per affermazione di Venditti stesso, “Stella” è certamente una preghiera; e poi c’è la figura di Cristo che ritorna. Anche quella del Papa. Nelle sue canzoni ci sono almeno due Papi che ho riconosciuto: uno è Leone Magno, mentre in “Esterina” troviamo la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga. Penso al senso religioso di molte canzoni di Antonello, e penso anche alla bellissima “Peppino” in cui parla del rapporto con il figlio e in cui ci sono elementi del cammino educativo che mi sembrano veramente molto rilevanti: Un padre e un figlio con un solo abbraccio / Squarciano il tempo, vanno oltre lo spazio / Cani randagi nella notte scura / La vita no, non fa paura… È un trattato di pedagogia».

 

Fisso lo schermo quasi ipnotizzata dalle parole di Monsignore. Ci prendiamo entrambi una pausa per riflettere sui versi di “Peppino” finché non riacquisto la lucidità necessaria per fargli una domanda sul suo rapporto di “consigliere” del cantautore: «Le ha mai chiesto un’opinione su qualche canzone?», gli domando. «Su quello di Giuda, sì. Se Antonello ti chiede una cosa talvolta lo fa in modo un po’ provocatorio, irrisorio. “Ma non sarò eretico?!”, mi disse una cosa del genere, e ricordo di aver cercato di rassicurarlo, spiegandogli che non c’è nulla di eretico in “Giuda”.

La figura di Giuda, poi, è stata talmente studiata e analizzata…».

 

Mons. Massimo conclude la sua interpretazione di alcuni versi del canzoniere vendittiano con l’intramontabile “Ci vorrebbe un amico”, uno specchio della concezione della vita da parte di Venditti. «Anche questa canzone secondo me è molto significativa. Indicativa di una persona bisognosa di amicizia. Come ho detto prima, io sono dell’opinione che i grandi sentano di più la solitudine. Ci tengo, tuttavia, a chiarire che non voglio arrogarmi il titolo di amico “numero uno”. Sono un amico, basta».

 

C’è una complementarietà tra i due amici, evidenziata dalla penna dello stesso Venditti nel suo contributo a “Dilexit ecclesiam”. Trovo che questa complementarietà sia ben sintetizzata in un pensiero che monsignore ha espresso, en passant, verso la fine dell’intervista: «Venditti è un uomo religioso, nella realtà vede un mistero. Venditti è un positivista, con questa apertura verso l’infinito…». Per un attimo la mia mente fa un balzo e mi porta al Proslogion di Sant’Anselmo, al “Credo ut intelligam, non intelligo ut credam”[1] (Credo per comprendere, non comprendo per credere) usata oggi a indicare la concezione della scienza e della fede non come entità appartenenti a sfere tra loro estranee, bensì come elementi che si pervadono, e sostengono, a vicenda. Chiedo scusa ai lettori e alle lettrici per essermi appoggiata a questa citazione e per aver ceduto alla “tentazione interpretativa” (e arbitraria), ma mi è sembrato calzante alla luce degli interventi di Mons. Massimo.

 

Tra le righe di riconoscenza e stima che il cantautore romano ha dedicato all’amico mi sono rimaste impresse queste considerazioni: «Don Massimo ha conosciuto un mare di gente, persone appartenenti ai mondi più disparati. Gli facevo spesso domande assurde: sulla genetica, sulla cremazione, sul trapianto degli organi in relazione alla resurrezione della carne. Domande apparentemente stupide, ma che lui prendeva sempre con molta serietà e che aprivano interessanti dibattiti. Lo “usavo” per chiarire tanti dubbi che avevo nel cuore, come un “sacerdote di campagna” e lui aveva una personalità così grande che sapeva accogliere anche domande piccole come le mie e soprattutto sapeva come rispondere in modo semplice e ad ogni tipo di persona. Sono convinto che persone dalla statura così grande abbiano bisogno di stare in mezzo alla gente, di tornare ad un sacerdozio “sul campo».

Mons. Massimo, in un certo senso, ha già “risposto” alle riflessioni vendittiane, ma provo a calcare un po’ la mano nel tentativo di suscitare altre considerazioni: «In Antonello non ho mai trovato domande “piccole”. Ho trovato, invece, domande sempre interessanti, talvolta provocatorie, talvolta espressioni di una mentalità comune che, magari, non esprime una grande conoscenza delle dinamiche ecclesiali, ma sempre stimolanti. Le persone come lui, quelle che creano qualcosa che resta, mi incuriosiscono, mi affascinano. La mia aspettativa prima di incontrarlo per la prima volta era proprio quella di trovare una persona che mi arricchisse e destasse curiosità in me». Aspettative, quelle nutrite da monsignore, che non sono state deluse. E che si sono concretizzate in un rapporto che si protrae ormai da quarant’anni. «Venditti è un cantautore autobiografico: attraverso le sue canzoni abbiamo il suo animo, naturalmente attraverso il processo di mediazione artistica, e la sua storia. In ogni canzone c’è un pezzo di lui, anche delle sue sofferenze, delle sue attese dalla vita,  storie d’amore, delusioni, speranze».

A testimonianza della reciproca stima e del profondo rispetto che vige tra i due amici, Mons. Massimo mi invita a proseguire nella mia “ricerca” conversando direttamente con l’autore di Sora Rosa, l’unico in grado di rispondere a domande di natura personale senza attraversare il confine dell’etica che Mons. Massimo Camisasca è ben consapevole di non voler varcare.