“Quello che accade a un seggiolino da noi…”

Pensieri e parole dopo un incontro allo stadio di San Siro durante Italia-Ucraina

                                           Di Giovanni Repossi

Sono le 19.04, e come sempre ho già oltrepassato i cancelli, mancano ancora due ore a Italia-Ucraina ma il cuore pulsa come a un bambino la prima volta allo stadio, entrano le squadre tra fischi di delusone e applausi di spinta si arriva alle 20.36, si annunciano le formazioni, l’ansia sale, per molti ingiustificata, per me routine che da anni  mi accompagna e mi fa sentire meno solo, come se a ogni fiato rubato mi parlasse dicendomi: “siamo pronti”; e forse quel siamo mi sa di condanna.

Sono le 20.39, i ragazzi stanno scendendo i campo, lo speaker ci ricorda i diritti umani, il bambino di fianco per poco non mi acceca con il palo della bandiera tricolore portata più che altro come arma, perché l’appartenenza non si tiene sotto i piedi tra le sigarette e le bottigliette abbandonate.

20.40, il momento degli inni nazionali, come la luce all’alba nelle giornate più fredde dell’anno, gradino dopo gradino con eleganza un signore sale portandosi dietro la gamba destra, non abbassando mai lo sguardo, arriva nella “mia” fila, ci cerchiamo con gli occhi, ci troviamo nel silenzio occupato dal frastuono del tifo.

Non parla la nostra lingua, mi mostra il biglietto sorridendo, io annuisco, mi alzo in piedi per farlo passare, lui con fatica senza che nessuno lo aiuti mette il piede sinistro sul seggiolino, la mano destra sul “gradinone” e con un po’ di fatica raggiunge il suo posto, accenna un “thanks” e sorride.

Dopo dieci secondi, inizia l’inno ucraino, alla prima nota, nonostante il fiatone post scalata al “monte San Siro” e un evidente dolore alla gamba lasciata a riposo, si alza in piedi e chiude gli occhi per qualche istante.

Chi leggerà ciò che sto scrivendo avrà due idee su di me: la prima è che sono un sociopatico che si nutre di storie e adrenalina per “vivere”, assolutamente vero. La seconda è di  mandare un pensiero di vicinanza ai miei genitori; rassicuro tutti, dopo qualche delusione hanno imparato ad accettarmi.

Chiusa parentesi clinica.

Mentirei se dicessi che quest’Uomo ha cantato l’inno fino a far tremare l’ugola, infrangerei l’ottavo comandamento se dicessi che l’anima del seggiolino accanto a me combaciasse perfettamente con lo spirito ultras a me caro.

È “semplicemente” rimasto in silenzio, osservando l’enorme mondo davanti ai suoi occhi, con la curiosità di un bambino e con la saggezza di un anziano, come se sapesse che quel momento, seppur velleitario per i suoi problemi, in qualche modo facesse cambiare tono alla sua storia, terra alle sue radici.

I suoi occhi lucidi durante le note dell’inno, il sorriso unito all’applauso all’1 a 2 ucraino, l’orgoglio che va oltre lo sport, il richiamo della Sua patria, il ricordo di un’infanzia costruita su fondamenta che oggi non ci sono più.

Solo una foto, chiesta in punta di piedi ai due ragazzi in maglia azzurra seduti dietro, che coglie l’essenza della fotografia, non scattata per far rosicare l’amico al matrimonio della cucina o per prendere 30 like in più aggiungendo l’hastag “sto*****”, ma per mandare un messaggio, nella mia mente forse imbottita di sogni, una foto che sa di “Ci siamo” e ci saremo sempre, e se chi l’ha ricevuta in quel momento era senza luce o in uno scantinato, durante una preghiera, spero abbia sorriso pensando che tutti gli sforzi fatti non finiscono in uno slogan di un sindaco che si fa scrivere i discorsi e si limita ad incitare e abbracciare con la lingua, ma vada oltre.

Spero pensi che: “Finché sventola una bandiera giallo azzurra, io ci sono”.

Avrei tanto da aggiungere, ma concludo ringraziando una persona che mi ha trasmesso qualcosa di importante; guardiamoci negli occhi perché a volte cerchiamo l’acqua camminando tra una goccia e l’altra, senza renderci conto di quello che succede a un seggiolino da noi.

Per riassumere una serata cosi con “Fischi a Donnarumma”, circondato da pensieri profondi come: “Doveva giocare blablabla” bisogna avere grande cervello, enormi orecchie funzionanti e lingua srotolante.

Io, con i miei limiti, guardo negli occhi le persone, e utilizzo un organo che anche se  involontario, va rispolverato a volte: Il cuore.

Però facciamoli contenti dai: Frattesi 12’ (ITA) Frattesi 29’ (ITA) Yarmolenko 41’ (UCR)