Di Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia
L’imputabilità rappresenta un paradigma universale. Non solo in campo giuridico, ma anche filosofico, psicologico e sociologico. In effetti, se non ci fosse imputabilità, non si sarebbe responsabilità e un mondo in cui nessuno paga per i propri errori non sarebbe né giusto né auspicabile. Ecco dunque che bene si spiega perché le esenzioni da responsabilità, ossia i casi in cui la legge individua a priori categorie di soggetti non imputabili, sono da considerarsi tassativi e tassativi sono considerati dalla giurisprudenza. La proposta di legge, avanzata nel 2019 in sede parlamentare e su cui ancora deve essere presa una posizione, di abbassare l’età imputabile da quattordici a dodici anni, desta forti perplessità. Se infatti è vero che la criminalità giovanile è in forte aumento, come testimoniato dal diffondersi nei contesti urbani delle baby gang e più in generale dal proliferare di episodi di accoltellamenti e risse tra giovanissimi, è tuttavia da considerare che a monte sta un preliminare problema educativo e culturale, la cui disamina si pone a presupposto concettuale, prima di trattare il tema della coscienza di intendere e di volere di chi ha commesso il fatto. Certamente ogni fatto di reato va punito, a patto però che esso manifesti una reale e consapevole adesione psicologica dell’agente. Il punto non è solo giuridico, ma anche sociale. Se infatti la carenza di educazione e di formazione etica e morale non scusa, essendo irrilevanti ai fini della scusabilità gli stati d’animo secondo la legge penale (art. 90 c.p.), ciò nonostante, come è stato detto da attenta dottrina in tema di recidiva, l’ambiente carcerario può portare a un aggravamento dell’isolamento sociale del detenuto, che dunque, una volta rimesso in libertà, costituirà nuovamente un pericolo sociale. La prospettiva non può dunque essere solo quella punitiva e dell’incarcerazione, ma deve partire dai fondamentali luoghi, materiali e simbolici, della scuola e della famiglia: solo infatti un’educazione consapevole, approfondita e sentita dai giovani, potrà portare ad un’adeguata maturazione psicologica e morale, tale da prevenire il pericolo della commissione di reati. Non è attraverso l’inasprimento sanzionatorio che si ottiene il risultato voluto, nonostante i buoni propositi, come già spiegava attentamente il Beccaria. La pena deve infatti costituire l’extrema ratio, come conferma il senso logico del principio di precisione del precetto penale e del rigore assoluto con il quale il giudice deve accertare il nesso causale ai fini della condanna. La scuola e la famiglia appunto, come detto, ma anche e non da ultimo l’amore per il bello, un bello autentico, non quello dei social, e per il buono: l’amore cioè per la giustizia, la quale non è certo da ridursi a mero insieme di disposizioni di legge, quanto piuttosto da intendersi quale il laborioso e intenso impegno etico dell’essere umano, per creare un’opera perfetta, destinata a durare nel tempo. Proprio in tale ultimo assunto sta il significato autentico dei due caratteri propri della legge, ripetuti con insistenza in tutti i manuali giuridici: la generalità e l’astrattezza della norma. Una norma può infatti essere giusta se non discrimina, cioè se è generale, e se riguarda ogni ipotesi concreta suscettibile di essere ricompresa entro quella astratta. Di qui il carattere dell’astrattezza. Per fare questo lavoro occorre un’energia intellettuale notevole ed è questa quell’energia che i giovani devono scoprire e apprezzare, non già quella della forza bruta, che, proprio perché “bruta”, è “brutta”, ed è brutta perché insensata, illogica e lesiva in primo luogo per chi la pone in essere, poiché lo vedrà doversi giustificare avanti a un giudice, al cospetto della collettività. La chiave di lettura della vita sta proprio in questo: nell’amore verso il rispetto, l’educazione, la cultura, ossia verso gli altri, verso il prossimo, verso la comunità e verso la legalità. Si tratta di una forma di amore, comune al pensiero ateo e a quello credente, che non si impara attraverso l’esperienza del carcere, ma solo mediante una sentita riflessione con noi stessi. Di qui la centralità dell’autoriflessione e dell’autocritica (Socrate). In quel “conosci te stesso”, massima scolpita sul frontone del tempio di Delfi, sta tutta la più nobile sapienza umana.






