“Primo Maggio: non si può morire di lavoro”

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Di Dott. Gustavo Cioppa, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

 

Il Primo Maggio, festa dei lavoratori, nasce da una fondamentale esigenza di giustizia e di equità, nei rapporti sociali e lavorativi. La sua origine storica non si limita al singolo fatto generativo, ossia gli scontri avvenuti a Chicago nel 1886 per la richiesta, avanzata da un gruppo di lavoratori, della giornata lavorativa di otto ore, ma attiene a una più generale petizione di giustizia sociale e di proporzionalità tra le prestazioni nel rapporto di lavoro. Quest’ultimo infatti non è solo un contratto di diritto privato, traducendosi piuttosto in un rapporto giuridico in cui non vengono in rilievo esclusivamente obbligazioni in termini di reciprocità delle prestazioni, secondo il tradizionale schema sinallagmatico. Nel contratto di lavoro emergono infatti in tutta la propria autoevidenza doveri di diritto pubblico, sanciti sul piano costituzionale. Ecco allora che le richieste di giustizia, in termini di giustizia distributiva, proporzionale e di riparto, intese dai lavoratori, lungi dal costituire “quesiti”(dal verbo latino “quaero”, ossia “chiedere per sapere”), si traducono, come si sono tradotte, in “petizioni” e “pretese”(dal verbo latino “peto”, ossia “chiedere per ottenere”). Pretese peraltro giuridicamente ed eticamente fondate, stante il criterio dell’equità (art. 1374 c.c.), criterio che regola tutto l’intero sistema delle obbligazioni e dei contratti, nemmeno solo di diritto privato in senso stretto, e che, lungi dal costituire elemento residuale, rappresenta piuttosto stigma e pietra angolare dell’intero ordinamento. Pretesa di maggiore giustizia sociale dunque, pretesa giuridicamente fondata e doverosa, che tuttavia deve rapportarsi con una non ancora sua piena attuazione sul piano pratico. Si pensi al tema del rapporto tra salario, stipendio o entrate da lavoro autonomo e costo della vita, ove un’inflazione che genera ansia e un costo della vita in continua ascesa riducono il nucleo dei diritti fondamentali dell’individuo (non già del mero lavoratore). In tutto ciò, la norma costituzionale (art. 36 Cost.) secondo cui il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del proprio lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Vengono dunque ivi in rilievo concetti fondanti della nostra storia costituzionale, come l’adeguatezza della retribuzione ed essa non solo in relazione all’individuale persona del lavoratore, ma anche in relazione alla famiglia di questi, secondo la concezione solidaristica di cui all’articolo 2 della Costituzione medesima. Il giudizio di sufficiente e quello di adeguatezza richiamano allora quello di proporzionalità e, come in un circolo ermeneutico caratterizzato da un eterno ritorno, il principio di equità. L’equità non si traduce solo nell’attuazione in sede contrattuale dei principi di correttezza e buona fede. Essa si manifesta piuttosto quale essenziale e fondamentale modo d’essere dell’ordinamento, di quell’Essere, di heideggeriana memoria, di cui l’ordinamento giuridico e sociale rappresenta la traduzione. Questa equità nei rapporti lavorativi e sociali non può peraltro essere semplicemente enunciata, dovendo piuttosto trovare puntuale e concreta attuazione. Così, da un lato il mancato adeguamento di non pochi contratti collettivi di vari comparti, pubblici e privati, alle criticità rappresentate dal momento storico, dall’altro la grave piaga del caporalato e degli infortuni, spesso mortali, sul lavoro, rappresentano uno sconfessamento pratico del predetto principio. Le statistiche recano infatti dati poco rassicuranti e ogni fatto di caporalato rappresenta un oltraggio alla dignità umana, come ogni infortunio sul lavoro rappresenta non solo un lutto per gli affetti della persona offesa, ma anche una ferita per la società civile tutta. Non può allora più tollerarsi l’indebita logica, id est vera e propria costrizione e pressione morale, del dover accettare condizioni di lavoro inique, senza garanzie per la propria incolumità, con un monte ore tale da annichilire totalmente lo spazio vitale della persona del lavoratore. Il grido di dolore levato da chi presta la propria attività lavorativa in predette e similari condizioni non può allora rimanere inascoltato, a fronte del carattere permanente e abituale di tali fatti ingiusti. La giustizia sociale allora rappresenta il motivo d’essere e la causa funzionale della festività del primo maggio, festa del lavoro, ma di un lavoro che deve essere giusto ed equo, secondo i canoni della legalità, senza negazione della fondamentale tutela rappresentata dal contratto di lavoro dietro simulati rapporti a partita iva, senza ripetizione protratta di contratti a tempo determinato, volta a sottrarre dalla stipula di un contratto a tempo indeterminato, senza che il documento contrattuale venga ridotto a una mera lettera d’intenti, solo per citare la casistica più frequente. Per rendere effettiva la legalità, occorre sentirla, occorre percepirla, occorre viverla. Per fare propria questa dimensione etica e giuridica occorrono però responsabilità e autoresponsabilita, occorrono onestà e rettitudine, le quali possono essere apprese solo attraverso un’educazione non solo esterna ed impartita, ma in primo luogo attraverso lo studio della propria interiorità e di quella legge morale scritta nel cuore degli esseri umani, che tutti siamo chiamati ad apprendere e fare nostra. Il primo maggio possa allora tradursi in ciò: in un’occasione di riflessione pratica, di decisa presa di posizione contro le ingiustizie e nel coraggio di denunciarle, nella solidarietà umana che sempre deve caratterizzare le condotte umane e che si invera, come deve inverarsi, nei principi di equità e proporzionalità.