S. Natale 2019: alla scuola di Papa Francesco riscopriamo il segno antico del presepe

All’inizio dell’Avvento di quest’anno, Papa Francesco si è recato a pregare a Greccio, nel luogo dove un altro “Francesco” volle realizzare, nel Natale del 1223, quello che, nella tradizione, è stato chiamato il primo presepe. A Greccio il Papa, che porta il nome del grande santo d’Assisi, ha firmato una lettera apostolica, “Admirabile signum”, sul significato e il valore del presepe: è un testo di grande bellezza, di francescana semplicità, nel quale traspare il cuore di un uomo innamorato di Gesù. Tale fu il cuore di San Francesco, e tale è il cuore del nostro Papa: chi lo conosce e lo frequenta da vicino, può testimoniare che Jorge Mario Bergoglio, fedele figlio di Sant’Ignazio e della Compagnia di Gesù, sacerdote da cinquant’anni, è innanzitutto un uomo di fede, che ama Cristo, che trova nella preghiera e nell’abbandono quotidiano a Dio la sorgente della pace e della forza per vivere il suo pesante ministero. In fondo, il presepe, come rappresentazione della nascita di Gesù, ispirata alle pagine del vangelo di Luca e arricchita, nei secoli e nelle differenti tradizioni locali, da tratti nuovi e fantasiosi, nasce dal desiderio d’immaginare l’evento, per custodirne la memoria e soprattutto per assaporarne il mistero. Nella sua lettera, Papa Francesco richiama bene l’origine e le circostanze della sacra rappresentazione di Greccio: «Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: “Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti» (“Admirabile signum”, 2).

 

 

Il valore del presepe come segno che parla

 

 

Soprattutto, la lettera del Papa mette in luce il valore del presepe come segno che parla, in modo particolare ai credenti, e che ha una capacità di toccare e muovere il cuore di ogni persona aperta e disponibile a incontrare il mistero: «Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato. […] In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46)» (“Admirabile signum”, 3). Allo stesso tempo, il presepe racchiude un messaggio e un invito rivolto a tutti, credenti, non credenti o diversamente credenti, a sostare davanti a quel bambino, nato nella povertà di Betlemme, a fare memoria di quell’avvenimento che ha comunque segnato la nostra storia e la nostra civiltà. Da Cristo, il bambino di Betlemme divenuto il giovane uomo Gesù di Nazaret, che ha percorso le vie della Galilea e della Giudea di duemila anni fa e ha raccolto una comunità di discepoli intorno a sé, è nato e si è sviluppato un nuovo fenomeno di vita, un movimento religioso originale, con radici profondamente giudaiche. Si parla giustamente di un’eredità giudaico-cristiana che rappresenta una delle componenti fondamentali dell’Europa, sorta sulle rovine dell’antico impero romano. La storia e la civiltà europea e italiana – così come quella pavese – non si possono leggere e comprendere, prescindendo dal fenomeno cristiano, con le sue luci di santità e di sapienza e le sue ombre di peccato e di miseria umana, con la sua multiforme opera di carità e di promozione della giustizia e con le varie forme di commistione con il potere e i potenti del mondo. Senza il cristianesimo e la presenza della Chiesa, non si può comprendere la cultura, l’arte, la letteratura, la filosofia, anche nelle espressioni e negli orientamenti distanti dalla fede cristiana.

 

 

 

La festa del Natale può parlare a tutti

 

 

Ecco perché la festa del Natale può parlare a tutti, e chiede di non essere ridotta a un simbolo evanescente, a un rito sociale e consumistico, a una stucchevole evocazione di “buoni sentimenti”. Natale è memoria di una nascita, e si tratta della nascita di una persona reale che è parte della storia e ha un nome: si chiama Gesù. Non è giusto, né intelligente trasformarla in una “festa dell’inverno”, magari con la scusa di non offendere chi non è cristiano o chi proviene da altre culture e religioni, cancellando i segni o i canti che richiamano direttamente l’evento di Betlemme. Non c’è nessuna volontà d’imporre ad altri la fede, che per sua natura fiorisce solo nella libertà, né, tanto meno, di annullare il volto di tradizioni religiose e culturali che appartengono a popoli diversi: un fragile bambino, che nasce nella povertà di una grotta, circondato da angeli e pastori, non è forse un messaggio di tenerezza che tutti possono raccogliere? Non si tratta, evidentemente, di fare del presepe o di altri segni natalizi delle “armi” identitarie per favorire un clima di sospetto, d’estraneità o di ostilità verso chi viene da paesi lontani, per i tanti stranieri che abitano tra noi, lavorando e inserendosi sempre più nel tessuto della nostra Italia, che mandano i loro figli nelle nostre scuole e si sentono parte del nostro paese. Si tratta, solo, di essere leali e onesti con la nostra storia, di riconoscere la feconda presenza della fede cristiana nella nostra terra, e di essere disposti a lasciarsi interrogare e interpellare da quel bambino, e dal volto di testimoni di Cristo che hanno segnato il cammino della nostra Chiesa pavese, fino a persone vive che possiamo incontrare sulla nostra strada. Ecco perché vale la pena fare il presepe nelle case, nei luoghi di lavoro e di studio, negli ambienti di vita e di relazioni, provando a metterci in ascolto, magari nel silenzio, uscendo per qualche momento dal rumore, dalla frenesia dei regali, dai preparativi del pranzo natalizio, della parola che viene a noi da questo segno antico e sempre nuovo: «Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato» (“Admirabile signum”, 6). Questo sia il nostro Natale, un buon Natale! Intorno al nostro presepe.

 

Mons. Corrado Sanguineti

(Vescovo di Pavia)