Il valore del presepe come segno che parla
Soprattutto, la lettera del Papa mette in luce il valore del presepe come segno che parla, in modo particolare ai credenti, e che ha una capacità di toccare e muovere il cuore di ogni persona aperta e disponibile a incontrare il mistero: «Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato. […] In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46)» (“Admirabile signum”, 3).
La festa del Natale può parlare a tutti
Ecco perché la festa del Natale può parlare a tutti, e chiede di non essere ridotta a un simbolo evanescente, a un rito sociale e consumistico, a una stucchevole evocazione di “buoni sentimenti”. Natale è memoria di una nascita, e si tratta della nascita di una persona reale che è parte della storia e ha un nome: si chiama Gesù. Non è giusto, né intelligente trasformarla in una “festa dell’inverno”, magari con la scusa di non offendere chi non è cristiano o chi proviene da altre culture e religioni, cancellando i segni o i canti che richiamano direttamente l’evento di Betlemme. Non c’è nessuna volontà d’imporre ad altri la fede, che per sua natura fiorisce solo nella libertà, né, tanto meno, di annullare il volto di tradizioni religiose e culturali che appartengono a popoli diversi: un fragile bambino, che nasce nella povertà di una grotta, circondato da angeli e pastori, non è forse un messaggio di tenerezza che tutti possono raccogliere? Non si tratta, evidentemente, di fare del presepe o di altri segni natalizi delle “armi” identitarie per favorire un clima di sospetto, d’estraneità o di ostilità verso chi viene da paesi lontani, per i tanti stranieri che abitano tra noi, lavorando e inserendosi sempre più nel tessuto della nostra Italia, che mandano i loro figli nelle nostre scuole e si sentono parte del nostro paese. Si tratta, solo, di essere leali e onesti con la nostra storia, di riconoscere la feconda presenza della fede cristiana nella nostra terra, e di essere disposti a lasciarsi interrogare e interpellare da quel bambino, e dal volto di testimoni di Cristo che hanno segnato il cammino della nostra Chiesa pavese, fino a persone vive che possiamo incontrare sulla nostra strada. Ecco perché vale la pena fare il presepe nelle case, nei luoghi di lavoro e di studio, negli ambienti di vita e di relazioni, provando a metterci in ascolto, magari nel silenzio, uscendo per qualche momento dal rumore, dalla frenesia dei regali, dai preparativi del pranzo natalizio, della parola che viene a noi da questo segno antico e sempre nuovo: «Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato» (“Admirabile signum”, 6). Questo sia il nostro Natale, un buon Natale! Intorno al nostro presepe.
Mons. Corrado Sanguineti
(Vescovo di Pavia)