La Sacra Scrittura di domenica 18 giugno

Il commento di don Michele Mosa. «Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione»

Compassione. Che non è una questione sociale per accademici o giornalisti. Neppure una questione da battaglia sindacale. E nemmeno filantropia o azione per uomini e donne di buona volontà. Compassione non trasforma il cristianesimo in un’associazione no-profit e la Chiesa in una Ong. Compassione è – mia opinione, discutibile – l’altro nome dell’Incarnazione e – ancora mio pensiero – proprio l’Incarnazione, è ciò che, oggi, non riusciamo più a vivere: abbiamo così paura del mondo che, più che fuggirlo l’abbiamo assunto come parametro delle nostre scelte e dei nostri stili di vita perdendo così il Dio del Vangelo. Certo c’è ancora dio sulle nostre labbra e nei nostri pensieri ma quale dio? Il dio che condivide i pani e i pesci, il dio che piange davanti alla tomba di Lazzaro, il dio che si prende cura dei lebbrosi, il dio che si ferma a casa di Zaccheo? Compassione: che poi è dire – con le parole di Papa Francesco – ospedale da campo. È apertura di cuore prima ancora che accoglienza. È non giudicare per non sentirsi perfetti, cioè superiori agli altri. Compassione è insieme: “cum/con” è ciò che da senso al patire che è appassionarsi (I care, direbbe don Milani) prima che soffrire. E insieme è in-carnazione. Il cristianesimo è tutto lì. Il Vangelo è storia di un dio che si incarna. E incarnarsi, compatire, è ciò che questo dio chiede ai suoi discepoli: «Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità». Scusate allora la domanda: non è che a questo punto ciò che sparisce sia il sacro? In altre parole: non è che il Vangelo ci insegna a non separare dio dall’uomo perché in Cristo dio e uomo sono un’unica cosa? O forse la fede è teoria e la vita è un’altra cosa? Vi confesso che l’incarnazione – inculturazione direbbe qualcuno oggi – è il mio grande problema ma posso testimoniare, anzi vivere il Vangelo senza incarnarmi/inculturarmi nella realtà? Partendo non dalle idee ma dalla malattia e dalla fragilità. Forse questo è il mio deficit e il deficit della parrocchia dove vivo: abbiamo paura di sporcarci le mani, abbiamo paura della nostra fragilità prima di quella degli altri e ci nascondiamo nelle nostre liturgie e nei nostri Oratori sperando che il fumo dell’incenso e le voci dei bambini coprano il tutto. Compresa forse l’assenza del dio di Gesù Cristo.

Don Michele Mosa