La Sacra Scrittura di domenica 21 marzo

Il commento di don Michele Mosa. «Imparò l’obbedienza da ciò che patì»

Questione di figlio, l’obbedienza. Questione cioè di relazione non rapporto di sudditanza: uno comanda – il più vecchio o il più alto in grado – e l’altro – il suddito appunto – esegue gli ordini. No, non è questo- almeno credo. Obbedire è innanzitutto ascoltare, “ob-audire”, ascoltare stando di fronte. Interlocutori che intessono rapporti e relazioni. L’obbedienza non è annullamento della volontà del più debole e del più piccolo: questa semmai è prepotenza, prevaricazione. L’obbedienza esige, – lo ripeto – esige relazione: chiede ai due interlocutori di “stare in piedi” (seppure metaforicamente), di guardarsi negli occhi, di confrontarsi nella libertà e senza sotterfugi. «Fammi capire e imparerò i tuoi comandi» – recita il Salmo 119. Senza relazione «l’obbedienza – ha ragione don Milani – non è una più una virtù». O come spiega Samuele al re Saul: «Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è meglio del grasso degli arieti». Da sempre però noi uomini preferiamo liquidare la questione con Dio riducendola a pratiche religiose, sacrifici appunti e non importa se siano animali sgozzati o la messa festiva. Cristo invece insegna ai suoi a guardare Dio come un bambino guarda il suo papà. Insegna a pregare dicendo: Padre nostro». Commenta p. Cantalamessa: «Ma perché è così importante obbedire a Dio? Perché Dio ci tiene tanto a essere obbedito? Non certo per il gusto di comandare e di avere dei sudditi! È importante perché obbedendo noi facciamo la volontà di Dio, vogliamo le stesse cose che vuole Dio e così realizziamo la nostra vocazione originaria che è di essere “a sua immagine e somiglianza”. Siamo nella verità, nella luce e di conseguenza nella pace, come il corpo che ha raggiunto il suo punto di quiete». O come direbbe Dante per bocca di Piccarda Donati nel Canto III del Paradiso: «e ’n la sua volontate è nostra pace». Il dialogo apre il cuore. L’ascolto è il primo atteggiamento dell’uomo: «Ascolta, Israele!». La sofferenza che Cristo porta su di sé non è allora semplice frutto della malvagità umana o di una incapacità/impossibilità a ribellarsi: passione è sinonimo di amore incondizionato, la sofferenza – se così posso dire, consapevole della drammaticità delle situazioni – è la conseguenza più logica che inevitabile della scelta di costruire una vera relazione. È ciò che mette in conto una donna quando decide di dare alla luce un figlio: l’obbedienza è la risposta a una proposta: «Eccomi, sono la serva del Signore». L’obbedienza è la definitiva sconfitta dell’egoismo: è guardarsi negli occhi stando ritti in piedi. Spesso fa male ma – diceva Madre Teresa di Calcutta: «Ho scoperto il paradosso che se io amo fino a che fa male, allora non c’è dolore, ma solo più amore». Obbedire fa rima con amore non con dolore.

 

Don Michele Mosa