La Sacra Scrittura di domenica 12 luglio

Il commento di don Michele Mosa. «Gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo»

Situazione che non conosco (e chi di noi puoi dire di averla sperimentata o di viverla?). Per noi che fin da piccoli siamo stati battezzati l’essere figli di Dio – spesso neppure ci ricordiamo di essere figli nel Figlio, cioè, potremmo dire, figli adottivi – è un dato di fatto. Più che una certezza. Perlomeno teorica e teologica. Come possiamo dunque cogliere questa dimensione di attesa? Come vivere questa dimensione che, in linguaggio evangelico, potremmo definire vigilanza? Al massimo noi parliamo di vigilanza nel senso di attenzione a non cedere alle tentazioni, a non cadere nel peccato. Viviamo – esperienza comune ai nostri contemporanei, che pure rimproveriamo – schiacciati sul presente. Il futuro è solo il domani, anzi domani; nell’ottica però dell’immediata programmazione di un impegno di lavoro o di una cena o di una vacanza. Lo sguardo lungo sull’orizzonte non ci appartiene più: abbiamo disimparato a gustare la bellezza del panorama. Figuriamoci se possiamo gustare la dimensione escatologica: tensione che ha alimentato i primi cristiani e sta alla base del Nuovo Testamento. Convinzione che – è proprio ciò che oggi ci ricorda Paolo – segna la creazione tutta, non solo noi uomini e donne. Ciò che però più mi fa riflettere è che la perdita di questa dimensione escatologica, di questa tensione ci ha fatto perdere la peculiarità e l’originalità del cristianesimo: Cristo si è incarnato in Gesù di Nazareth. Dio mi viene incontro in un uomo. La “carne”, la “materia” rivelano Dio, sono via non ostacolo, incontro con il Padre: «chi vede me (Gesù), vede il Padre». Siamo ben lontani, siamo all’opposto di ogni spiritualismo che dissocia lo spirito dalla materia, e prospetta il cammino della “religione” come un abbandono della materia. La tensione escatologica purifica la stessa idea di religione: non è spiritualismo, è incarnazione. Essere cristiani è difficile non perché non siamo abbastanza allenati alle “cose dello Spirito” ma il contrario: non abbiamo ancora compreso il valore del corpo, «tempio dello Spirito». Riscoprire la tensione verso la Parusia ci fa riscoprire la “santa inquietudine” di cui parlava Benedetto XVI: siamo cristiani eppure dobbiamo ancora diventarlo. Siamo chiamati a far fiorire il seme che il battesimo ha messo nel nostro cuore. Cristiano è in fondo colui che ha nel battesimo le radici e nella Parusia la meta. L’attesa è, in altre parole, la cifra della nostra quotidianità.

 

Don Michele Mosa