La Sacra Scrittura di domenica 13 giugno

Il commento di don Michele Mosa. «Siamo in esilio lontano dal Signore»

Mai avrei creduto che si potesse parlare di fede e di esilio come se fossero due sinonimi. O meglio: che l’esilio fosse la conseguenza della fede, almeno in alcuni casi, lo sapevo – basta pensare a Giovanni Crisostomo – ma che fosse la condizione “normale”, la cartina al tornasole del credente non l’avevo mai immaginato. Paolo però ha ragione: la fede è un sogno. Un desiderio. Un cammino. È un vedere la casa in lontananza ma non abitarvi ancora. La sogni. La immagini. La vedi ma non la possiedi: è sullo sfondo. È la molla che ti fa vivere. Tuttavia, non c’è ancora, nella realtà. È solo desiderio. Ipotesi. Non la vedi. La immagini, appunto. Fede infatti – scrive l’Apostolo – non è visione. È – come leggiamo nella Lettera agli Ebrei – «certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono». Mi sorge a questo punto un dubbio, o almeno una domanda: la fede è qualcosa di positivo? È qualcosa che val la pena di cercare, di coltivare, di far crescere? Ti fa camminare o è un’illusione? Un miraggio?In altre parole: la fede è qualcosa di positivo o di negativo? Associare infatti la fede all’esilio fa pensare alla sofferenza. Alla sconfitta. Alla nostalgia. O, se preferite, alla croce. Credo in Dio, l’Onnipotente, e mi ritrovo così debole da essere cacciato dalla mia patria, dalla mia casa, dai miei affetti. Meglio allora non avere la fede. Meglio non credere in Dio. O forse Paolo ci invita a ripensare la nostra fede. A rileggere il percorso della nostra vita. Ci scuote e ci chiama ancora una volta a conversione: a cambiare il modo di pensare per poter rinnovare il nostro stile di vita. Fede è nostalgia e speranza più che certezza e convinzione. Fede è sogno che apre nuovi cammini più che memoria che ancora al passato. È rischio, non sicurezza. È la lontananza che consolida perché – lo cantava Domenico Modugno – «è come il vento. Spegne i fuochi piccoli ma accende quelli grandi, quelli grandi». L’esilio allora non è punizione o castigo, fa soffrire ma impedisce all’amore di spegnersi. Il rischio da evitare è rassegnarsi all’esilio e smettere di sognare. È lasciare che l’orizzonte si restringa fino ad appiattirsi sul presente. Perché – ci ricorda la saggezza ebraica – peggio dell’esilio è abituarsi ad essere esiliati. Se infatti smettiamo di credere, smettiamo anche di camminare. Anzi di vivere. Chi non sogna, non ha futuro. La questione di fondo – mi sembra – è quella di tornare al Vangelo, al Kerigma, alla Fede. Il resto verrà dopo. La nostra società, infatti, è cristiana «nella sua origine e anti-cristiana nel suo risultato» (Löwith). Ha fame di futuro. Non di abitudini. Ripartire dunque è sogno non ritrovare quello che abbiamo lasciato. Spero che il Covid-19 ci abbia insegnato almeno questo.

 

Don Michele Mosa